La pandemia e il lockdown sono stati e continuano a essere un tripudio di numeri. I numeri dei contagi, dei tamponi eseguiti, dei ricoveri in terapia intensiva, delle centinaia di morti che si aggiungono ogni sera, inesorabili. Ogni tanto però, ogni 3 giorni in media, arriva l’annuncio di un’altra morte, causata dalla “pandemia invisibile”, come l’ha definitiva qualcuno, della violenza maschile contro le donne. L’annuncio dell’ennesimo femminicidio. Un conto che ieri è stato reso noto dal Viminale con un aumento del 5% rispetto all’anno scorso.
Diversamente dalle persone morte di Covid 19, delle donne uccise dai loro partner o ex, i giornali ci raccontano storie che si somigliano tutte
Femminicidi in aumento
Sono donne che avevano già subito aggressioni e abusi, che spesso li avevano inutilmente denunciati; donne che avevano cercato di interrompere le relazioni con i maltrattanti, donne che si erano separate andando via con i loro figli. Eppure non è bastato. Quando leggiamo queste notizie, pensiamo sempre alle donne che i nostri centri, i centri antiviolenza della rete D.i.Re, stanno supportando. E sono tante, circa 20 mila ogni anno. Donne che hanno potuto beneficiare di una valutazione del rischio professionale quando hanno chiamato per chiedere aiuto e che insieme alle operatrici hanno potuto individuare il percorso su misura per loro per lasciarsi alle spalle la violenza. Donne scampate, speriamo per sempre, al pericolo di finire “morte ammazzate”, per le quali alla fine di un percorso spesso lungo e tortuoso, si delinea una nuova vita di libertà e autodeterminazione.
Durante il primo lockdown i centri antiviolenza D.i.Re hanno supportato circa 3.000 donne al mese, il 71% in più rispetto a un mese medio del 2019, prima che esplodesse il Covid 19
I centri antiviolenza
Da allora, come hanno raccontato le tante operatrici intervenute nella conferenza stampa in streaming che D.i.Re ha organizzato il 25 novembre, il ritmo di lavoro è rimasto sempre intenso. Ma le situazioni non sono tutte uguali. A Trieste per esempio è stata buona: “Qui c’è una buona interlocuzione con le istituzioni che hanno supportato una campagna di informazione per far sapere che il centro antiviolenza era aperto”, ha detto Francesca Maur del GOAP (Gruppo Operatrici Antiviolenza e Progetti); ma anche a Venezia e Treviso non è andata male: “In questa zona le attiviste di Non una di meno ci hanno aiutate a trovare alloggi in bed&breakfast per accogliere le donne in quarantena prima che si potessero trasferire in casa rifugio”, ha raccontato Giorgia Fontanella della Coop Iside.
Diversa invece la situazione in Campania, “dove abbiamo una vera emergenza case rifugio, con solo 80 posti per 6 milioni di abitanti, e dove la disoccupazione delle donne è drammatica portandole a restare a lungo in situazioni di violenza”, ha dichiarato la consigliera regionale Daniela Fevola, operatrice del centro antiviolenza Spazio Donna di Caserta. Catania anche non è da meno: “il centro antiviolenza, anche se attivo‘a distanza, via telefono e web, ha rappresentato un presidio territoriale fondamentale, perché la locale rete antiviolenza ha visto venir meno alcuni dei suoi riferimenti principali, a cominciare dai servizi sociali, che sono stati interrotti senza alcuna comunicazione”, ha spiegato Anna Agosta, consigliera D.i.Re della Sicilia e presidente di Thamaia Onlus.
Con il governo Draghi alle pari opportunità è tornata la ministra Elena Bonetti con la quale riprenderà l’interlocuzione dato che il sistema antiviolenza italiano, governato dall’Intesa Stato-Regioni del 2014, presenta gravi criticità evidenziate da tempo da D.i.Re
Finanziamenti e Piano antiviolenza nazionale
Criticità che sono state confermate anche dalla Relazione sulla governance dei servizi antiviolenza e sul finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio, approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio del Senato il 14 luglio 2020, che ha fatto propria la richiesta di D.i.Re per “una revisione dei criteri per l’aggiudicazione delle risorse“, che “finisce per favorire gli erogatori di servizi generici, i quali tendono a ridurre al minimo i costi complessivi rispetto alle spese delle associazioni di donne specializzate, che invece danno la priorità alle esigenze delle vittime, conformemente all’approccio previsto dalla Convenzione di Istanbul”. Per questo non solo va rivista urgentemente l’Intesa Stato-Regioni del 2014, necessità che anche la ministra Elena Bonetti aveva riconosciuto prima della crisi di governo, ma va anche fatta una pianificazione triennale delle risorse del Piano nazionale antiviolenza.
I fondi sono oggi stanziati anno per anno, con un accumulo costante di ritardi nei vari passaggi – dallo Stato alle Regioni ai territori – che precedono l’erogazione ai centri antiviolenza e alle case rifugio, e ciò non consente alle organizzazioni di programmare le attività
Le risorse finanziarie per il Piano nazionale antiviolenza, infatti, continuano a essere insufficienti rispetto al fabbisogno effettivo, al punto che il 55,5 delle operatrici è volontaria, come aveva messo in evidenza l’Indagine dell’Istat sui centri antiviolenza e le case rifugio del 2019. E soprattutto, paradossalmente, anche quelle che ci sono non vengono spese: “Al 15 ottobre 2020, le Regioni hanno erogato il 72% dei fondi dell’annualità 2015-2016, il 67% per quelle del 2017, il 39% per il 2018 e il 10% per il 2019”, segnalava l’ultimo report di ActionAid sulle risorse del sistema antiviolenza, rilevazione annuale alla quale i centri antiviolenza D.i.Re partecipano attivamente.
Imprescindibile allora inserire nel Piano nazionale antiviolenza una specifica funzione di monitoraggio dell’uso delle risorse, con criteri qualitativi derivati dalle disposizioni della Convenzione di Istanbul, affidata a una équipe multidisciplinare con la partecipazione dei centri antiviolenza. Maggiori investimenti vanno anche fatti sul fronte della formazione di tutti gli attori che intervengono sulla violenza contro le donne, valorizzando il ruolo dei centri antiviolenza e assicurando la partecipazione di operatori delle forze dell’ordine e del sistema giustizia, compresi i/le consulenti coinvolti nelle CTU.
Investimenti sulla formazione raccomandati anche dal GREVIO per evitare nei tribunali e nei media, la vittimizzazione secondaria sulle donne che denunciano la violenza
come conferma il Gruppo di esperte del Consiglio d’Europa nel Rapporto sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia, redatto per risolvere le criticità evidenziate e in particolare rispetto a valutazione del rischio, predisposizione delle misure di protezione, accelerazione dei processi e al giusto riconoscimento della violenza anche in sede di procedimenti civili. Per questo, visto che vanno rinnovati sia il Piano nazionale antiviolenza, che il Piano nazionale antitratta scaduti entrambi nel 2020, è venuto il momento di far dialogare questi sistemi e il sistema di accoglienza dei/lle migranti, richiedenti asilo e rifugiati/e, al fine di facilitare l’accesso delle donne e ragazze di migranti che hanno subito violenza ai centri antiviolenza, mitigare la vittimizzazione e facilitare il percorso di inserimento sociale in autonomia. Dedicando risorse specifiche per i servizi di mediazione culturale e la formazione delle mediatrici culturali sulla violenza di genere, e favorendone l’inserimento stabile nelle équipe dei centri antiviolenza.
ma La programmazione di un Piano nazionale antiviolenza non può prescindere da una adeguata e corretta rilevazione dei dati
Il problema dei dati
A tutt’oggi, però, le indagini statistiche dell’ISTAT continuano a non restituire un quadro aderente alla realtà del lavoro dei centri antiviolenza con particolare riferimento all’attuazione delle disposizioni della Convenzione di Istanbul. Per questo ribadiamo la necessità di prevedere la partecipazione dei centri antiviolenza nella definizione di tutte le raccolte dati, esigenza già espressa da D.i.Re all’Istat. A luglio scorso abbiamo presentato il Position Paper Il cambiamento che vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino, frutto del lavoro di un ampio gruppo di esperte in rappresentanza di 45 organizzazioni della società civile coordinato da D.i.Re. Ripartire da lì sarebbe una buona idea: un buon inizio cominciare da quello sguardo ampio sul miglioramento della condizione delle donne e la riduzione del gender gap, se si vuole non solo contrastare ma anche prevenire la violenza maschile contro le donne, senza perdere l’occasione del Next Generation EU perché senza investimenti per le donne non si esce dalla crisi.