“Spesso la cosa più giusta che puoi fare è scuotere il tavolo”, ha detto democratica americana Alexandria Ocasio-Cortez dopo la sua elezione come deputata al Congresso degli Stati Uniti, e devo dire che le donne che ho incontrato in questo viaggio in Medio Oriente hanno scosso molti tavoli. Tavoli pesanti, tavoli invisibili, tavoli culturali. E hanno scosso anche me perché rapportarsi con loro ha significato riequilibrare la mia vita. Riposizionare priorità e scelte. Razionalizzare ciò che ognuno di noi ha e dà per acquisito e che acquisito non è, se non lo si riafferma ogni giorno. Attraversando, nella primavera del 2017, il ponte di barche sul fiume Tigri per raggiungere Mosul assediata non sapevo esattamente cosa avrei trovato ma già essere lì, su quel fiume tante volte incontrato nei libri di storia insieme all’Eufrate, mi faceva venire la pelle d’oca. La prima tappa in attesa di poter entrare a Mosul è stato il villaggio di Hammam Al Alili: giro tra le case, cerco di capire chi ci vive.
A un certo punto una donna con un bambino, mi viene incontro e inizia a parlare in arabo
L’unica parola che capisco è “shay” (the). La seguo ed entriamo nella sua casa, due grandi stanze una per mangiare e l’altra per dormire in 12 persone. Mi porta una sedia per farmi sedere, le ragazze della casa si muovono veloci per preparare un the privandosi della poca acqua che hanno. Parliamo a gesti eppure riusciamo a capirci e Noor, questo è il suo nome, alla fine si toglie il velo e si fa una foto con me, regalandomi una caramella che è in bella vista sulla mia scrivania per ricordarmi sempre il valore dei gesti. Noor è una delle tante donne incontrate nelle zone più difficili del mondo. Noor che nonostante le bombe, la morte intorno ha riconosciuto in un’altra donna, diversa e senza velo, un volto amico con cui “scoprirsi” senza timori. Come la mamma incontrata nell’ospedale della Croce Rossa a Mosul, arrivata durante la notte con due dei suoi figli.
lei Era sul letto della figlia più piccola colpita su tutto il corpo dalle schegge di una mina anti uomo incontrata sulla strada mentre fuggivano dal DAESH
(meglio conosciuto come Isis). Erano gli ultimi giorni della battaglia, la città sarebbe stata liberata dopo qualche giorno ma quella mina le aveva portato via il marito e un’altra figlia. Lei era su quel letto come una Madonna con la sua bambina e raccontava la sua storia con dignità, non un grido non un lamento. Sola la cruda realtà. Due occhi in cui poter annegare per il dolore che trasmettevano ma che nello stesso tempo parlavano di una forza interiore senza confini. Come si resiste a tutto questo? Alla morte di un marito e una figlia esplosi davanti agli occhi? Come si fa a raccontarlo senza cedere un attimo?
Le donne incontrate nelle zone di guerra ti raccontano la quotidianità della guerra. Uno studiosi di diritti umani docente all’Università americana di Beirut, Omar Nashabe, ha dichiarato “Le donne hanno un ruolo veramente importante perché le donne sono quelle che sopportano i periodi difficili. Lo fanno per i bambini, per la casa, per trovare una soluzione alla carenza dell’elettricità, per trovare l’acqua, il cibo. E’ tutto sulle loro spalle. Loro sono diventate più forti, più creative e, molto più importante, responsabili. Loro hanno un ruolo di leadership. Questo ha creato maggiori frustrazioni negli uomini soprattutto negli sciovinisti che sono diventati più aggressivi contro le donne ed è per questo che noi assistiamo a una maggiore tensione di genere. Ma questo non cambia la realtà perché sono le donne, le donne rifugiate che si occupano dei bambini, della terra e che devono gestire tutto e far si che tutto vada bene per i bambini che crescono.
E dove sono gli uomini? Stanno seduti, senza lavoro, in preda a forti depressioni: Sono le donne quelle che sono di supporto alla vita in questa parte del mondo”
Da Mosul a Beirut, dove le donne siriane rifugiate sono la cerniera tra un mondo che non c’è più e la dura realtà di doversi guadagnare il pane ogni giorno, spesso sotto un caporale che batte il tempo mentre tu lavori. Donne rifugiate da un decennio, dall’inizio della guerra in Siria, e che ancora sperano di tornare a casa. Beirut, come nei tempi antichi, è un luogo che accoglie ma è anche un luogo di traffici.
La ricca borghesia libanese e araba soprattutto ha messo su un traffico speciale: le domestiche arrivano dall’Eritrea e dell’Etiopia. In una casa rifugio ce ne sono alcune che hanno subito violenze dai “signori“ da cui erano a servizio. Private di passaporto, impossibilitate a chiamare casa, violentate secondo la necessità del “padrone” con il benestare della “padrona”. Alcune di loro sono riuscite a fuggire, altre sono finite in carcere. E tra quelle finite in carcere c’è Assefa Fedaku che incontro ad Addis Abeba nel maggio 2019: “Ho fatto il viaggio verso il Libano tanto tempo fa perché la mia famiglia era molto povera e non potevano mandarmi a scuola. Era molto difficile per me partire legalmente. Ho vissuto lì per 3 anni e 4 mesi e poi sono stata messa in prigione. Dopodiché il governo etiopico mi ha mandato il biglietto di ritorno per l’Etiopia. È stato un grande problema per me ritornare, la mia famiglia è rimasta delusa perché non sono riuscita a restituirgli i soldi che avevano speso per mandarmi in Libano”.
Ma Assefa è una donna che ce l’ha fatta. Tornata in Etiopia per vivere ha iniziato a cucire magliette e a rivenderle al mercato
Ha iniziato senza un soldo e come racconta “non avevo nemmeno le scarpe e soldi per il trasporto.” Ha chiesto finanziamenti è entrata nei progetti per le donne di organismi internazionali, tra cui la Cooperazione Italiana. Adesso ha un’azienda che produce in gran parte per ditte cinesi. Dà lavoro a 39 donne di cui 8 a part time ed è diventata testimonial di una campagna che spiega alle etiopi che andare all’estero non è sempre la soluzione, anzi. E aiuta quelle che rientrano dal Libano o dai Paesi Arabi a reinserirsi nella società e a imparare un lavoro.
L’ultimo “scatto” è per una ragazza del sud dell’Etiopia, di Boditi nella Regione delle Nazioni, a 300 km da Addis Abeba. Lei ha 28 anni, un bambino di 6 mesi. Lei è positiva all’AIDS, lui fortunatamente no. La incontro in un ambulatorio medico dove riceve la terapia anti HIV. Occhi da gazzella, di una bellezza straordinaria. Sorride e ti dice cha “va bene così, sono viva e posso far crescere la mia creatura”. Per tutte loro e per le altre tante incontrate in giro per territori di guerra o carestie vale la pena battersi, vale la pena raccontarle perché dimostrano quanto e come le donne, nelle situazioni emergenziali o di guerra, siano il perno intorno al quel si sviluppa la vita, ma non semplicemente perché la generano ma perché la supportano, sono la base dell’assistenza e del sostentamento e lo fanno in modo tradizionale o anche affrontando la battaglia: come donne curde nella battaglia contro il Daesh. Ma questo è un altro capitolo.