Guylaine Maroist parla del suo film sulla cyber misoginia: “Così ho capito di essere stata una vittima”

Intervista alla regista di “Backlash: Misogyny in the Digital Age”, realizzato insieme a Léa Clermont-Dion e prodotto in Canada, in cui si raccontano le storie di donne vittime di cyber violence e di come l'hate speech na devastato le loro vite

Lucrezia Cairo
Lucrezia Cairo
Social Media Manager



Guylaine Maroist è giornalista, musicista, sceneggiatrice ed è la regista canadese che ha realizzato il documentario “Backlash: Misogyny in the Digital Age”, insieme all’autrice femminista Léa Clermont-Dion. Un film prodotto dalla RuelleFilms che racconta quattro storie di donne vittime di cyber violence, cioè della violenza virtuale che ha condizionato, a volte in maniera irreversibile, le loro vite: donne che hanno deciso di non rimanere in silenzio e di raccontare che cos’è l’hate speech di genere.

Guylaine Maroist

Tra colpi di scena, minacce di morte e di stupro, immagini denigranti diffuse online, centinaia di migliaia di commenti e messaggi fatti di insulti, ingiurie e violenza feroce: è così che si disvela la tremenda verità nascosta dietro all’utilizzo dei social media all’insegna della ben radicata cultura dello stupro. Un documentario che rivela gli effetti devastanti della cyber-misoginia, ovvero mettere a tacere le donne. Un odio raccontato seguendo quattro donne in due continenti: l’ex presidente della Camera dei deputati italiana, Laura Boldrini, l’ex rappresentante democratica alla Camera statunitense Kiah Morris, l’attrice francese e youtuber Marion Séclin, Laurence Gratton e Donna Zuckerberg, specialista in violenza online contro le donne e sorella del fondatore di Facebook.

Guylaine Maroist, come è entrata in questo mondo e perché lo ha voluto raccontare?
Léa Clermont-Dion

Tutto comincia sempre col voler “raccontare una storia”. Da giovane lavoravo come giornalista e mi occupavo di musica, ma poi mi sono diciamo politicizzata e come prima cosa sono andata in Medio Oriente dove ho intervistato, tra gli altri, Yasser Arafat. Erano i primi anni duemila, il mondo stava cambiando, l’attentato dell’11 settembre è stato vero punto di non ritorno, così ho cominciato a cambiare anch’io.

E quindi ha deciso di mettersi a fare documentari?
Marion Séclin

C’è stato un momento in cui il mio partner Eric e io abbiamo capito che potevamo cambiare le cose tramite i nostri documentari. È stato quando ne abbiamo fatto uno sui veterani in Canada usati come cavie durante la Guerra Fredda per testarne la resistenza e la capacità di combattere dopo l’esplosione di bombe. Lì è iniziato il nostro primo viaggio alla ricerca della verità: scavando negli archivi statunitensi, parlando con molte persone. In realtà hanno anche cercato di fermarci, ma noi siamo andati avanti lo stesso.

“Abbiamo vinto il premio per il Miglior Documentario dell’anno in Canada e questi uomini sono stati riconosciuti e risarciti dal governo che ha dedicato loro un posto nel museo”

E come è arrivata alla misoginia online?
Laura Boldrini

Lea Clermont-Dion, che ha realizzato “Baklash” con me, è venuta a cercarmi nel 2012 dopo che ho realizzato un altro documentario sul nucleare che ha portato alla chiusura dell’ultima centrale in Quebec. Un film che ha avuto un forte impatto sociale. Lei ha raccolto il materiale e nel 2015 abbiamo cominciato a lavorare, facendo ricerche per trovare una storia da raccontare, e subito abbiamo capito che dovevamo fare anche una campagna sull’argomento per rendere più consapevole il pubblico, e permettergli di avere accesso a strumenti di contrasto al fenomeno. Volevamo cambiare le cose e portare consapevolezza nella società. Da questo film sono venuti fuori dei progetti politici, come per esempio la formazione adeguata alla polizia che banalizza le denunce, e anche una legge come quella tedesca per punire i social che contribuiscono all’hate speech senza prendersi la responsabilità.

Ci sono motivi personali in questa scelta?
Kiah Morris

In realtà è stato molto interessante perché nonostante anch’io fossi una vittima di cyber violence, ero la prima a non saperlo. Quando nel 2012 ho realizzato il documentario sul nucleare ho ricevuto su Facebook foto di mucche decapitate da un individuo che ho bloccato e segnalato alla piattaforma. Ho avuto anche insulti e sono stata additata come una stupida, una che non aveva idea di cosa stesse parlando. Senza rendermene conto ho smesso di scrivere del problema nucleare, mi sono tolta dai social media e ho spostato l’attenzione su un altro argomento.

“È stato durante le ricerche su questo documentario sulla cyber violence che ho capito di essere stata anche io una vittima”

Come avete scelto le storie che raccontate?

Laurence Gratton

La ricerca è stata complessa, abbiamo cominciato da alcuni articoli di giornale su cui abbiamo trovato la storia di Laura Boldrini, grazie al Guardian che ne aveva parlato. Lea invece ha trovato Marion Seclin, dato che aveva vissuto in Francia per un periodo, un’altra storia di grande impatto. È stato molto difficile invece trovare Kiah Morris, l’abbiamo rintracciata solo tra il 2018 e il 2019 grazie a un articolo pubblicato nel Vermont, ma volevamo a tutti i costi la storia di una donna nera visto che sono la categoria più minacciata. Lea ha poi pubblicato sul suo profilo un annuncio chiedendo di essere contattata da chi voleva raccontare la sua storia: così abbiamo trovato Laurence Gratton.

“In totale avevamo 20 storie di donne, tra cui una musulmana a Vancouver e una trans, ma non potevamo inserirle tutte, abbiamo dovuto scegliere”

Perché proprio questa scelta, queste 4 storie?

In realtà avevamo tra tutte una storia, la più drammatica e commovente, che ho deciso di non inserire nel documentario perché temevo l’avrebbe stigmatizzata a vita. Laura Boldrini per esempio è un personaggio pubblico, in grado di gestire la cosa, mentre questa ragazza aveva visto diffuse le sue immagini di nudo a 14 anni e stava cercando di ricostruire la sua vita: è stato per motivi etici che non ho voluto pubblicare la sua storia, nonostante fosse quella più potente. Abbiamo cercato di equilibrare le storie che dovevano essere necessariamente diverse.

Qual è stato il rapporto con queste donne durante le interviste?

Una cosa è leggere una vicenda del genere sul giornale, un conto è parlarci faccia a faccia. Per esempio con Kiah Morris sono andata io a casa sua: è stato molto difficile perché entri in empatia, capisci quello che stanno passando e che non si tratta di un singolo momento, ma di una violenza che si verifica ogni giorno della tua vita. Vedere Kiah con suo figlio, con la preoccupazione di portarlo a scuola, dato che anche lui era stato vittima di attacchi online, è stato terribile e non me lo aspettavo.

E Laura Boldrini? 

Sono rimasta scioccata perché i suoi aggressori rivendicano le loro azioni pur essendo personaggi pubblici che fanno parte delle istituzioni. È questa la chiave. Laura Boldrini è diventata estremamente popolare in Quebec e molti la conoscono per quello che ha subito quando è stata presidente della camera in Italia.

“Io penso che Boldrini sia una donna coraggiosa, al suo posto non sarei stata in grado di affrontare tutto quello che lei ha affrontato”

Ha mai percepito la paura di queste donne minacciate di essere aggredite o uccise?

Sì assolutamente. In tutte e quattro ho percepito la paura. Non me ne ero resa conto ma per esempio Laura Boldrini temeva per la sua stessa vita, il che è comprensibile dato che ha ricevuto un proiettile in una busta a casa. Quando vieni minacciata come Laurence, il cui molestatore le aveva scritto “Ti ho vista ieri, indossavi una maglietta rossa, eri lì, ti sto seguendo, un giorno ti succederà qualcosa, sono davvero ansioso di vederti stuprata da un paio di persone”, è chiaro che hai costantemente paura, come fai a non averne?

Fare questo film ha cambiato la sua percezione della violenza maschile sulle donne?

Sapevo che fosse un problema grande ma non avevo idea di quanto grande, né che fosse una minaccia per la stessa democrazia. Solo ora comprendo la gravità del fenomeno, che non è quello raccontato dai giornali perché succede ovunque anche se la gente non sembra rendersene veramente conto. Quando le donne raccontano della cyberviolence subita, le persone pensano stiano esagerando perché è virtuale, quindi non è una vera violenza. Eppure è un problema pesante per le generazioni di oggi, in quanto ci sono giovani donne che conoscono la cyberviolence e decidono di non partecipare alla discussione pubblica o di fare carriera in questo ambito, perché non vogliono viverla sulla loro pelle.

“E se le donne decidono di non partecipare allo spazio pubblico perché hanno paura, allora non esiste più la democrazia”

E invece gli uomini?

Per gli uomini tutto ruota intorno alla mascolinità, che è molto pesante, ma devono riuscire a decostruirla se vogliono avere vite migliori. È cambiata la mia prospettiva sul loro comportamento che penso dipenda dalla cultura in cui vivono, in cui viviamo tutti. Per esempio in Quebec cominciano a capire che questi modelli non sono più sostenibili, che non si può continuare così. Nelle sale dove il film viene proiettato solo il 25-30% sono uomini e alcuni rimangono scioccati. Io stessa ne ho visti diversi piangere, avevano 50 anche 60 anni.

La storia raccontata dal padre della ragazza che si è suicidata è terribile.

Volevamo anche un uomo nel film, e Glen Canning ha dedicato la sua vita a educare giovani uomini riguardo la mascolinità tossica, lui stesso non era consapevole delle incongruenze sociali, non sapeva di vivere in una cultura dello stupro. È stata una chiamata alla realtà tremenda per lui. Noi abbiamo pensato che la storia fosse incredibile e che fosse necessario l’impatto di un uomo nel film per il pubblico maschile, perché in genere gli uomini si sentono a disagio durante la proiezione, vergognandosi della loro identità o col timore di essere accusati di misoginia.

“In realtà anche quest’uomo è una vittima della stessa misoginia perché sua figlia è morta per colpa della cyber violence. Penso sia un modo positivo per avvicinare gli uomini alla nostra causa”

Il film ha una struttura narrativa particolare, a volte crea suspence, ce ne può parlare?

Volevo che le persone avessero prima di tutto un’esperienza emotiva. Anche se la storia è reale, bisogna in qualche modo costruirla per far sì che le persone la seguano. Vedere queste donne nelle loro case, con la violenza online che si ripercuote sulle loro famiglie, seguirle in tempo reale attraverso la storia, sentendo quello che hanno sofferto, era troppo importante. E poi abbiamo deciso di inserire delle soluzioni, perché quando la gente vede il film poi ti chiede: “Cosa possiamo fare?”.

E voi cosa avete fatto dopo il film?
Glen Canning

Durante la ricerca abbiamo collezionato tantissimo materiale che poi abbiamo deciso di usare per creare una piattaforma e renderlo disponibile. Abbiamo sviluppato strumenti di prevenzione per professori e studenti, facciamo cine-conferenze andando nei licei e presentando il film, mentre i professori possono usufruire della nostra piattaforma con informazioni e video per i loro studenti. Ci sono anche risorse se sei stata una vittima, abbiamo ricevuto diversi fondi da organizzazioni governative. Abbiamo anche raccolto 20.000 firme per una petizione riguardo una legge che verrà portata in parlamento. Stiamo cercando di cambiare veramente le cose, e vorremmo farlo anche in Italia, visto che si sta pensando di tradurre la piattaforma anche qui.

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