Lettera dall’Afghanistan: “Ultimo anno terribile per noi donne, talebani ci hanno tolto ogni diritto”

Quasi dimenticate dal resto del mondo, le afghane continuano la loro lotta contro un governo che le sta cancellando

Laura Aprati
Laura Aprati
Giornalista a RaiNews 24, videoreporter, già autrice televisiva a Unomattina, Rai Uno. Ha realizzato il documentario "La forza delle donne" nei paesi in guerra in Medio Oriente.



La condizione femminile in Afghanistan, sotto il governo dei Talebani, si fa sempre più dura, aggravata dalla situazione oramai di emergenza alimentare con l’inverno che piega ogni residua resistenza. Le temperature sotto le zero uccidono chi è già stremato. Ma noi la “osserviamo” da lontano e spesso sparisce dalle pagine dei giornali. Qualche tweet, qualche commento e poi sembra che quell’angolo di mondo sparisca sommerso dal flusso delle notizie quotidiane che riguardano di più “noi”, il nostro mondo, le nostre donne. Loro, le afghane sono lontane.

Le teste dei manichini dovevano essere decapitati

A dicembre il governo aveva proibito alle donne di lavorare con le Organizzazioni Non Governative. Le Università erano state chiuse alle donne, nonostante le proteste e il fatto che gli uomini erano a fianco delle loro colleghe, un po’ come è successo e Iran e questo aveva dato una speranza, scemata velocemente. Poi arriva la notizia che i manichini dei negozi a Kabul sono tutti incappucciati. Le teste avvolte con scampoli di stoffa o con sacchetti di plastica.

A dire il vero i Talebani, poco dopo la presa del potere nell’agosto 2021, volevano che i manichini fossero decapitati: lo aveva richiesto il Ministero talebano del vizio e della virtù. È un’interpretazione integralista della legge islamica “che proibisce statue e immagini dalla forma umana poiché potrebbero essere adorate come idoli”. I negozianti si sono adattati a questo nuovo ordine, per evitare rappresaglie, cercando di realizzare copricapi abbinati agli abiti, confezionati con la stessa stoffa o con lo stesso materiale. Ma non tutti ci sono riusciti e così si sono viste teste di manichini avvolte nell’alluminio o in buste di plastica nera.

Ma con l’economia crollata in questi ultimi 18 mesi certo l’acquisto di abiti da sposa, da sera e tradizionali non è più una priorità che è invece quella di procurarsi il cibo e sopravvivere

Comunque gli agenti inviati dal Ministero del vizio e della virtù pattugliano regolarmente negozi e centri commerciali per assicurarsi che i manichini abbiano la testa coperta. Ma i commercianti sanno che quel provvedimento dei talebani è pretestuoso. Associated Press riporta una testimonianza “Tutti sanno che i manichini non sono idoli e nessuno li adorerà. In tutti i Paesi musulmani si usano i manichini per mostrare i vestiti”.

A rischio cibo, istruzione ma anche le cure mediche

E diciamo che la questione manichini è sicuramente di secondo piano rispetto uno dei problemi più importanti, dopo l’alimentazione e solo un poco prima dell’istruzione, cioè le ospedalizzazioni e la sanità pubblica: le donne rischiano di essere estromesse dalle cure mediche per mano di dottori maschi anche se il numero di pazienti donne è aumentato nell’ultimo periodo.

ora la priorità è la formazione di nuove dottoresse che possano prendere in cura le donne nel Paese

Ospedale a Kabul

Lo riporta il Washington Post in lungo reportage che racconta tante storie come quella di Omeida Momand che lavora in un ospedale femminile di Kabul dove, durante il giorno visita le pazienti nel reparto di ginecologia e monitora le madri con gravidanze ad alto rischio, mentre di notte si occupa dei cesarei d’urgenza. Omeida non ha voluto lasciare il Paese sapendo di lasciare tante donne in difficoltà infatti nella società islamica più conservatrice  le donne possono essere assistite da altre donne.

Gli uomini curano gli uomini e le donne curano le donne

Hibatullah Akhundzada

L’idea di formare dottoresse e infermiere rappresenta una vera e propria contraddizione rispetto a quelle che sono le regole di segregazione per le donne nell’ultimo anno, ma è una vera esigenza visto che, come deciso dal leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhundzada, negli ospedali del paese le operatrici sanitarie dovrebbero curare le donne, mentre gli operatori sanitari maschili dovrebbero curare gli uomini. Muhammad Hassan Ghyasi, viceministro ad interim della Sanità, ha affermato di dover allineare le politiche alla rigida interpretazione della sharia, o legge islamica. E questo riguarda quindi anche la sanità pubblica. Ghyasi ha anche specificato che se però negli ospedali pubblici non fosse possibile per una donna essere curata da una dottoressa in quel caso potrà essere assistita da un medico maschio.

D’altra parte la richiesta di formazione di personale medico è in contrapposizione con la restrizione vigente dell’istruzione alle donne ma la situazione potrebbe  provocare un cambio di rotta nel governo islamico

Al Washington Post Momand racconta che “si diplomerà questo autunno come prima della sua classe e spera di aprire una clinica ginecologica in una provincia rurale dell’Afghanistan. Quando ero bambina, questa era il mio sogno – ha spiegato – diventare un medico, servire il mio paese e la mia gente, ma soprattutto aiutare le nostre donne, quelle più povere”.

Ma le donne continuano a morire

Mursal Nabizada

Intanto le donne, soprattutto chi si espone politicamente, muoiono. Come Mursal Nabizada, ex parlamentare afghana, 32 anni, è stata uccisa all’inizio dell’anno nella sua abitazione a Kabul, insieme a una delle guardie del corpo. Un secondo agente è rimasto ferito nell’agguato, come il fratello della donna, mentre un terzo sarebbe scappato con soldi e gioielli. Nabizada era tra le poche donne, ex membri del parlamento del governo sostenuto dagli Stati Uniti e deposto dai talebani nell’agosto 2021, ad aver deciso di rimanere in Afghanistan. La prima esponente politica del passato a essere uccisa da quando il paese è sotto il controllo talebano.

Originaria della provincia orientale di Nangarhar, Nabizada era stata eletta deputata nel 2019 come rappresentante della capitale afghana. Insieme a lei giurarono altre 68 donne con cui occupò 69 dei 250 seggi del parlamento. Entrata nella Commissione parlamentare per la difesa, era impegnata anche in una ONG, l’Istituto per lo sviluppo e la ricerca delle risorse umane. All’indomani del ritorno dei talebani, Nabizada aveva proseguito a svolgere il suo lavoro presso l’Istituto per lo sviluppo e la ricerca delle risorse umane, come aveva spiegato in un’intervista  rilasciata ad agosto scorso ad Arezo T.V., un’emittente locale.

Durante la trasmissione l’ex deputata aveva anche condannato, con coraggio, le crescenti restrizioni del governo alla libertà delle donne afghane: ”Oggi le donne sono imprigionate in casa mentre hanno responsabilità verso le loro famiglie e dovrebbero lavorare. Le donne vivono in una pessima situazione, è come se fossero sepolte vive in una tomba”.

 

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