“La decisione di estradare Julian Assange è un simbolo terribile di quanto sia diminuito l’impegno per i diritti umani del governo inglese e americano”, ha scritto Edward Snowden su Twitter il 17 giugno, giorno in cui Priti Patel, Ministra dell’Interno del governo conservatore inglese, ha concesso l’estradizione negli USA di Julian Assange, giornalista, editore australiano e fondatore nel 2006 di Wikileaks (www.wikileaks.org).
Un’organizzazione internazionale, senza scopo di lucro, specializzata nel rendere noti comportamenti non etici o apertamente criminali di governi e aziende, sconosciuti al grande pubblico, grazie alla collaborazione con informatori affidabili ai quali è garantita la segretezza sulla loro identità e i più importanti quotidiani a livello internazionale, per la diffusione delle notizie. La decisione inglese – ampiamente prevedibile, dati gli stretti legami politici fra Gran Bretagna e USA (come pure per le posizioni conservatrici, oltremodo radicali, della Ministra Patel) – se attuata, genererà gravi ripercussioni sul ruolo e la libertà dell’informazione nel mondo attuale e, di conseguenza, sulla qualità delle nostre malandate democrazie ma soprattutto sulla vita di Assange che rischia la prigione perpetua, in isolamento, in un carcere di massima sicurezza negli USA.
La decisione di estradare Assange: Espionage Act
Le accuse contro Assange, particolarmente sostenute dal governo repubblicano degli Stati Uniti presieduto da Donald Trump e recepite nei fatti anche dall’attuale governo del democratico di Joe Biden, sono state formulate sulla base dell’Espionage Act, una legge che era stata approvata nel 1917, cioè nell’anno in cui gli Stati Uniti entrarono fra i paesi combattenti della Prima guerra mondiale (1914-1918).
Una legge di guerra focalizzata sul massimo livello di contrasto allo spionaggio e agli attacchi contro la sicurezza nazionale, applicando pene detentive lunghissime compresa quella capitale
Dal 1917 a oggi, nonostante il mondo, le società e anche le guerre siano molto mutati, l’Espionage Act negli USA è ancora “utile” per scovare e perseguire pericolosi individui che attentano alla sicurezza e alla potenza della più grande democrazia del mondo. Una democrazia che deve essere difesa in patria, fuori dai suoi confini ed esportata, anche attraverso il ricorso alla guerra. Per perseguire questi obiettivi vitali, dalla fine del Secondo conflitto mondiale (agosto 1945), gli Stati Uniti sono stati impegnati nelle guerre in: Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia. E con la Nato, in Europa, nei conflitti della ex-Jugoslavia (1991-2001).
Daniel Ellsberg e la libertà di stampa: i Pentagon Papers
Ed è proprio in riferimento a una guerra – quella del Vietnam – che, sulla base dell’Espionage Act, nel 1971, negli Stati Uniti venne inquisito Daniel Ellsberg, dipendente di una società specializzata in analisi delle politiche pubbliche, che si era imbattuto in un dettagliato studio top-secret del Pentagono, dal quale emergeva la piena consapevolezza politica e militare dell’impossibilità di una vittoria americana.
E tuttavia, i giovani statunitensi continuavano ugualmente a essere inviati a uccidere e a morire
Ellsberg, fotocopiò le 7.000 pagine del documento top-secret e iniziò a trasmetterle, dapprima, al New York Times, quindi, al Washington Post che ne avviarono le pubblicazioni. L’attenzione degli americani fu enorme e le ricadute negative per il Presidente Nixon, allora in carica, molto rilevanti: circa un 50% in meno di popolarità. Nonostante i tentativi del governo – risultati inefficaci – di bloccare le pubblicazioni sui giornali e l’incriminazione di Ellsberg sulla base dell’Espionage Act, una grande battaglia per la libertà di stampa si attivò nella società americana, grazie anche al coinvolgimento ottenuto da Ellsberg di altri 17 giornali, mentre agiva in clandestinità. Questa battaglia democratica per la libertà di stampa – nota come Pentagon Papers e divenuta esemplare – fu recepita anche dalla Corte Suprema, la quale stabilì che il governo non poteva impedire le pubblicazioni sui media, perché la stampa gode della protezione costituzionale del Primo Emendamento.
Daniel Ellsberg – che oggi ha 90 anni ed è ancora lucido e battagliero – nel marzo scorso è stato intervistato da Stefania Maurizi, giornalista investigativa che scrive per il Fatto Quotidiano e precedentemente aveva lavorato per il gruppo editoriale l’Espresso. Richiesto dalla Maurizi se, all’epoca, non fosse stato terrorizzato dalla possibilità concreta di trascorrere il resto della sua vita in prigione, Ellsberg ha risposto: “Non volevo passare la mia vita in prigione, ma quando si trattava di rischiare per avere la possibilità di abbreviare una guerra che stava uccidendo centinaia di migliaia di esseri umani e, alla fine, diversi milioni di persone, allora il prezzo di perdere la libertà o, addirittura, morire, mi sembrava un passo molto naturale da compiere.
In tempo di pace, i civili mirano a non correre alcun rischio, per la carriera, per il loro sostentamento, ma c’era l’esempio dei giovani americani che andavano in prigione per protestare nel modo più forte possibile contro questa guerra ingiusta, imperiale. Con il loro esempio è stato facile”. (Daniel Ellsberg, “È scandaloso che Biden abbia continuato a perseguire Assange”, intervista di Stefania Maurizi su Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2022).
Collateral Murder e la guerra in Iraq
Come nel caso dei Pentagon Papers, il 5 aprile del 2010 il sito di Wikileaks pubblica un video di un genere molto particolare, intitolato Collateral Murder. Il riferimento, anche in questo caso, è a una guerra americana: quella in Iraq, avviata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nel 2003, nell’ambito della lotta al terrorismo jihadista, dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001. Questo video è un documento segreto del Pentagono che mostra soldati americani a bordo di un elicottero da combattimento Apache che sghignazzano e commentano cinicamente mentre sparano e uccidono una quindicina di civili iracheni inermi, un noto fotografo dell’agenzia di stampa Reuters con il suo assistente e feriscono gravemente due bambini.
Il video di questa assurda carneficina ha oltre due milioni di visualizzazioni su YouTube in appena ventiquattr’ore e viene rilanciato da tutti i siti e dai più importanti media del mondo, tra i quali The Guardian, Der Spiegel, Le Monde, The New York Times, le cui redazioni si trovarono costrette a scoprire il volto reale talvolta anche “sporco” delle guerre condotte dagli Stati Uniti in Afghanistan (2001-2021) e in Iraq (2003-2011): conflitti che fino a quel momento avevano sostenuto quasi acriticamente e raccontato senza prestare attenzioni sostanziali alle conseguenze sulle vite dei civili e alla distruzione di Stati sovrani.
Nessuno dei militari responsabili di quei crimini venne perseguito
Guantanamo e le torture
Assange, ben prima di Collateral Murder, aveva già reso note al grande pubblico altre informazioni segrete riguardanti le azioni americane successive all’11 settembre. In particolare, era stato messo in rete un centinaio di documenti secretati, provenienti dal ministero americano della Difesa, fra cui il Manuale sul trattamento dei prigionieri nell’ormai tristemente noto centro di detenzione di Guantanamo. Raggruppati sotto il titolo “Politiche sui detenuti”, questi documenti riguardano “le regole e le procedure concernenti i detenuti nelle prigioni militari americane”, fra cui quella di Abu Ghraib in Iraq e, soprattutto, il centro di detenzione di Guantanamo a Cuba, uno dei luoghi più impenetrabili del mondo, sul quale soltanto la Croce Rossa Internazionale aveva scritto un rapporto riservato sulle torture fisiche e psicologiche che costituivano la regola quotidiana di gestione dei prigionieri, detenuti per la maggior parte senza alcun capo di imputazione. In quella circostanza si determinò un duro confronto tra Wikileaks e il Pentagono che richiedeva la rimozione dal sito del manuale, poiché la sua pubblicazione non era stata approvata.
Si può considerare l’inizio di un conflitto che sarà sempre più serrato tra Assange e l’amministrazione statunitense, destinato a proseguire fino alla richiesta americana di estradizione al governo inglese
Chi ha ha divulgato il materiale?
Ma chi aveva dato a Wikileaks quel video top secret, come pure le migliaia di altri documenti segreti? Non tutti nella CIA, nel Pentagono e nella National Security Agency (NSA) erano convinti delle scelte e dei metodi di conduzione delle guerre, di trattamento dei prigionieri, delle falsificazioni sui dati delle vittime civili che venivano diffuse ufficialmente. Alcune di queste persone che conoscono gli atti top secret vivono dei veri e propri conflitti di coscienza come quelli descritti da Ellsberg e, come lui, ritengono che le informazioni abbiano una rilevanza sostanziale nella vita delle persone e pertanto debbano essere rese note all’opinione pubblica.
Alcune di queste persone, le più coraggiose, divengono dei whistleblower, un termine intraducibile in italiano che sostanzialmente indica degli “informatori dall’interno”
Sanno di correre dei rischi terribili per la loro vita, perché – se scoperti – verrebbero incriminati ai sensi dell’Espionage Act e, contrariamente alle spie che vendono le loro informazioni a potenze straniere in cambio di denaro e/o altri favori, fra i quali la protezione, i whistleblower non ricavano vantaggi di sorta, tranne l’aver compiuto una scelta etica e democratica. La più nota dei whistleblower americani che trasmise ad Assange il video di Collateral Murder e i documenti sui crimini nelle guerre in Iraq e Afghanistan era un’analista ventiduenne della NSA: Chelsea Manning che fu identificata, incriminata, condannata a trentacinque anni di carcere dei quali ha scontato effettivamente otto anni, a seguito di un suo ricorso, accolto, sulla sproporzione della pena.
Durante la detenzione in isolamento per 23 ore al giorno, privata degli occhiali per leggere e del sonno, aveva tentato tre volte il suicidio
Manning non fu scoperta a causa di errori di Wikileaks, ma si tradì da sola, in un momento di fragilità, scrivendo dei suoi conflitti in una chat. Il suo interlocutore corse a denunciarla. Il 26 luglio del 2010 Julian Assange viene intervistato dal settimanale tedesco Der Spiegel: “I Enjoy Crushing Bastards”, intervista di John Goetz e Marcel Rosenbach. Si tratta di un’intervista molto franca: Assange ha trentanove anni ed è consapevole del difficile equilibrio fra l’interesse pubblico delle sue pubblicazioni di documenti riferiti alla realtà delle guerre e la contestuale necessità di tutelare anche il segreto di Stato. È comunque animato dalla convinzione che coloro i quali progettano e realizzano le guerre siano in ogni caso più pericolosi di lui e si mostra inoltre convinto che la pubblicazione dei dati influenzerà non solo l’opinione pubblica, ma anche i decisori politici. Ritiene che la brutalità quotidiana e lo squallore della guerra possano modificare gli orientamenti dell’opinione pubblica e quella delle persone in posizione di potere politico e diplomatico.
A questo proposito i due giornalisti che lo intervistano si dimostrano molto più scettici
E, forse, alla luce di quanto accade oggi ad Assange e nella guerra russo-ucraina, avevano ragione loro. Nell’intervista si affronta il tema dei segreti militari, dell’identità delle fonti, della possibilità che le pubblicazioni mettano a rischio le truppe internazionali impegnate nella guerra. Assange illustra con precisione i processi di minimizzazione dei danni per evitare che non si generino possibilità significative di colpire degli innocenti. Quanto al segreto di Stato e alla sua legittimità questa è la sua risposta: “Esiste un ruolo legittimo per la segretezza e un ruolo legittimo per l’apertura.
Purtroppo, chi commette abusi contro l’umanità o contro la legge riesce fin troppo facilmente a compierli utilizzando, appunto, il legittimo segreto. Le persone di buona coscienza, al contrario, hanno sempre rivelato gli abusi ignorando le restrizioni e i pericoli che li riguardano. Non è Wikileaks che decide di rivelare qualcosa. È un whistleblower o un dissidente che decide di farlo. Il nostro compito è assicurarci che queste persone siano protette, che il pubblico sia informato correttamente e anche che la documentazione storica non venga negata”. Una domanda riguarda la pericolosità di Assange sulla base di un parallelismo con Ellsberg che fu definito da Nixon “l’uomo più pericoloso d’America”. Assange risponde così: “Gli uomini più pericolosi sono quelli che si occupano di fare guerre. E devono essere fermati. Se questo mio pensiero e agire mi rende pericoloso ai loro occhi, così sia”. I giornalisti, infine, gli chiedono perché, invece di aprire un’azienda nella Silicon Valley, date le sue notevoli competenze informatiche, e vivere negli agi in una casa a Palo Alto, abbia deciso di dedicarsi al progetto Wikileaks. La risposta di Assange è questa:
“Viviamo tutti una volta sola. Quindi siamo obbligati a fare buon uso del tempo che abbiamo, facendo qualcosa che sia significativo e soddisfacente. Trovo Wikileaks significativo e soddisfacente”
In quello stesso anno, nel 2010, Joe Biden, allora vicepresidente di Obama, definì Assange un “terrorista high-tech”, il che – come dovrebbe apparire chiaro da quanto è stato illustrato fin qui – è un’accusa assurda. Eppure, da quel 2010 a oggi Assange non ha praticamente più conosciuto la libertà e da tre anni vegeta nel carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh, una sorta di Guantanamo britannica. Ora ci saranno gli ultimi ricorsi contro l’estradizione negli Stati Uniti, ma nessuno è molto ottimista. Stefania Maurizi, nel corso dell’intervista a Ellsberg di marzo, gli aveva chiesto se ci fosse qualche possibilità di un processo equo per Assange negli Stati Uniti.
Ellsberg le ha risposto: “Non lo credo, perché in base all’Espionage Act l’imputato non ha la possibilità di dire alla giuria perché ha fatto ciò che ha fatto, cosa sperava di ottenere, quali vantaggi per il pubblico e quale danno ci sia stato davvero per la sicurezza nazionale. Inoltre, nemmeno le recenti rivelazioni sul progetto della CIA di ucciderlo sono state considerate seriamente. Dopo l’11 settembre, negli ultimi vent’anni, tutto è cambiato, quindi potrebbe essere condannato anche se non dovrebbe. Il primo emendamento verrebbe così eliminato e questo significa che non solo i whistleblower, ma anche i giornalisti dovrebbero temere di essere perseguiti e condannati per avere fatto il loro lavoro, se avessero messo in discussione il governo e divulgato informazioni che il governo vuole tenere segrete”.