La sciagurata invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo ha riportato in primo piano il tema dell’accesso all’UE dei Paesi richiedenti, che procede da anni tra le luci dell’integrazione economica e le ombre della mancata integrazione democratica. La guerra voluta da Putin ha spinto molti a spingere ad affrettare la domanda di ingresso, con un significato simbolico che va ben oltre la semplice richiesta e confida nell’onda emotiva che l’orrore della guerra ha suscitato nei popoli europei.
Ucraina, un paese non ancora democratico
Un’apertura all’Ucraina da parte delle istituzioni Ue finora c’è stata, ma solo parziale. La presidente della Commissione ha espresso parere favorevole senza indicare tempistiche. Più dubbi vengono sollevati dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel, secondo cui “ci sono opinioni e sensibilità diverse sull’allargamento”. Nella società civile molti, come il giornalista Corradino Mineo, dubbi non ne hanno: “L’Ucraina si è conquistata sul campo indipendenza e diritto a far parte dell’Unione europea”. Ben prima della guerra si diceva che Kiev dovrebbe rivedere il suo sistema di potere perché la democrazia non è ancora consolidata: nel 2018 la nazione è stata etichettata come “parzialmente libera” da organizzazioni come Freedom House. Ora i vertici europei prendono tempo per non gettare benzina sul fuoco. L’ipotesi pare ancora lontana nonostante le forti pressioni di Zelensky.
Ovviamente l’accettazione cambierebbe completamente la situazione in merito al conflitto perché In quel caso Putin avrebbe aggredito un membro dell’Ue
La procedura
L’ultimo paese che aderì all’Unione fu la Croazia: la domanda di adesione fu inviata nel 2003, i negoziati si aprirono nel 2005 e l’ingresso ufficiale avvenne nel 2013. La procedura normale è infatti lunga, articolata e complessa e richiede anni per le verifiche. Prevede che vadano verificati i princìpi di rispetto dei diritti umani, delle libertà e dello stato di diritto, insomma dei contenuti della Carta dei diritti fondamentali; una serie di condizioni economiche e politiche conosciute come “criteri di Copenhagen”. C’è il vincolo che limita l’accesso ai fondi UE al rispetto di questi criteri e soprattutto al primo, ma è difficile da applicare perché il trattato di Lisbona prevede che per sospendere un Paese serva l’accordo di tutti: il che porta in un vicolo cieco e costringe in pratica a rinunciare a ogni sanzione contro chi li viola.
L’ampliamento verso Est
L’Europa si è progressivamente, continuamente allargata verso Est. Nel 2004 con il quinto ampliamento furono accolti ben 10 Paesi, cui se ne aggiunsero due nel 2007. La maggioranza proveniva dall’ex blocco sovietico. Si prevede in futuro un ulteriore probabile allargamento nei Balcani. Gli osservatori più realisti sostennero fin dall’inizio che si trattava di un eccesso di ottimismo che avrebbe presentato il conto. Che affidarsi alla pressione morale è nobile ma spesso non basta.
Pensavano che quei governi non fossero pronti a rispettare gli standard europei: e per questo furono facili profeti
Paesi di estrema destra nella Ue
Paesi governati da destre ultranazionaliste come Polonia, Ungheria e in misura minore altri del gruppo Visegrad dicendo di ispirarsi ai “valori tradizionali” da anni tirano la corda sullo stato di diritto, la libertà d’espressione, l’accoglienza ai migranti, i diritti delle donne, ma non intendono spezzarla perché i fondi europei sono indispensabili alle loro economie. Pensiamo all’Ungheria (che per le idee conservatrici di Putin è il più attraente dei Paesi) con il suo durissimo pacchetto di leggi omofobe e misogine, con la censura sistematica alla stampa e agli oppositori politici, con il controllo politico della magistratura, con la mancata trasparenza degli apparati burocratici. Il partito di Orban ha appena eletto una presidente impegnatissima contro la fantomatica “teoria del gender”, Katalin Novak, con le congratulazioni entusiaste dei nostrani Pillon.
Ha rifiutato di aderire alla Convenzione di Istanbul contro la violenza maschile sulle donne
Anche la Polonia si rifiuta di menzionare l’uguaglianza di genere nelle dichiarazioni europee. Le donne vengono nominate solo in riferimento a questioni demografiche. Molte polacche denunciano alla Corte europee continue violazioni dei loro diritti. Si è varata una legge per istituire il super-procuratore antiborto, divorzio e Lgbtq+. Non più tardi dello scorso ottobre c’è stato un durissimo scontro istituzionale con la commissione UE, dopo che Varsavia aveva varato una riforma della giustizia non conforme allo stato di diritto.
Il Manifesto delle destre
In tutti questi anni queste posizioni non si sono ammorbidite, anzi hanno esteso il contagio dando linfa nell’Unione alle destre europee ultraconservatrici. I poteri autoritari appena trovano un varco si spingono sempre più in là. Un manifesto sovranista, nuova carta dei valori europei, è stato sottoscritto da 13 forze politiche di estrema destra, tra cui i partiti dell’ungherese Orban, della francese Marine Le Pen e degli italiani Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ci si domanda se non sarebbe preferibile un’Unione magari più piccola, ma più coesa, ma in questo momento è difficile parlarne. Tra gli effetti nefasti di una guerra vicina all’Europa (serrate le fila!) c’è quello di annichilire il dibattito sul rispetto dei diritti umani.