“Sia che si tratti del corpo altrui sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il corpo umano che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso”, scriveva Merleau-Ponty nella “Phenomelogie de la perception” (Gallimard, Parigi, 1976).
Arte e contaminazione dei linguaggi
Frammentarietà dei linguaggi visivi, sconfinamenti inaspettati ed equilibri precari, sono alla base dell’arte contemporanea e la performance è l’espressione artistica perfetta in cui far confluire queste peculiari caratteristiche fondamentali che hanno superato i canoni. Nella performance l’azione dell’artista è strettamente connessa all’esperienza del pubblico in uno scambio reciproco di offerta e trasformazione interiore. Nel libro di Lea Vergine “Il corpo come linguaggio. Body Art e Performance” (Prearo Editore, Milano, 1974) compare anche il nome di Trisha Brown, un’artista che non appartiene strettamente né al campo delle arti visive né a quello della performance. La presenza di questa danzatrice e coreografa americana è la spia di un grande cambiamento in atto.
nel secondo Novecento si accelera infatti quel processo di ibridazione dei linguaggi che già le avanguardie storiche avevano sperimentato agli inizi del secolo. Crollano le barriere fra le discipline: arte, danza, musica e poesia entrano in dialogo fra loro forse come non mai prima d’ora
Romina de Novellis e il trauma del corpo
Romina de Novellis è stata una ballerina professionista, nel 1999 si è diplomata con il metodo Royal Academy of Dance London e nel 2001 ha fondato la sua compagnia a Roma mentre si formava con il Tanztheatre Wuppertal. Una carriera ben avviata con maestre del calibro di Pina Baush, Carolyn Carlson ed Emma Dante, stroncata nel 2006 da un grave incidente che l’ha immobilizzata a letto per lungo tempo. Il trauma della perdita dell’uso del corpo è stato guarito con la performance che è stata la naturale evoluzione della danza, il medium artistico per eccellenza per poter continuare a raccontare storie con il corpo. Come scrive Mininni (“Arte in Scena.
La performance in Italia 1965-1980”, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 1995): “Da sempre, infatti, il corpo parla un suo linguaggio, seguendo numerosi riti comportamentali, riconducibili a prima vista alla qualificazione di appartenenza alla razza, religione o classe sociale […] Non c’è paese o cultura che non eserciti il suo potere appoggiando certi modi di comportamento o, nello stesso tempo, creando delle strategie di discredito per far apparire immorale o antisociale chi esce dalla norma. Tutto questo si riflette sull’individuo, che soffre per l’impossibilità di un atteggiamento spontaneo, rendendolo più facilmente soggetto alla nevrosi”.
La performance è l’esaltazione della libertà nell’unione di arte e vita, forse utopica ma affascinante, che era già stata sperimentata dai Futuristi italiani e dai Dadaisti nella prima metà del Novecento
Ma poi ripresa nel Giappone degli anni ’50 dagli artisti del gruppo Gutaj e, pochi anni dopo, in America, in quel mitico Black Mountain College californiano in cui John Cage mette in scena il suo primo happening: “Il termine – dice Minniti – non si riferisce a una forma d’arte chiaramente individuata ma piuttosto a una pluralità di rappresentazioni, che vanno dall’immagine statica (che coinvolge soltanto l’ambiente) a pièces elaborate, che possono essere paragonate a opere teatrali, anche se con sostanziali differenze […] L’happening è dunque un’immagine aperta, in cui molto è lasciato al caso e all’improvvisazione, dove il pubblico cessa di essere puro spettatore e diventa parte e oggetto dell’azione”.
La performance come happening
Dalla fine degli anni ’60 avviene dunque un mutamento dell’estetica il quale si basa sul processo di sconfinamento che si realizza nell’evento e non più nell’opera. La performance è dunque un momento sociale, anche quando si svolge in solitaria come nelle azioni catartiche di Gina Pane, che ha in sé le caratteristiche peculiari del rito e dello spettacolo. È un fenomeno difficile da ingabbiare in una definizione, dato che si appropria di elementi tratti anche dalla danza e dalla musica e rappresenta l’inesauribile vertigine di libertà creativa attraverso cui l’artista offre una proiezione di sé totalmente originale.
Non stupisce quindi che molte artiste abbiano trovato nella performance il mezzo espressivo ideale per raccontare e raccontarsi in un costante confronto anche con le questioni legate alla femminilità e all’autorappresentazione. “Con la performance il corpo femminile si emancipa dalla passività che la cultura per secoli gli ha riservato […] per diventare soggetto, per generare l’opera […]”, dice Federica Boràgina, in “Women in Fluxus and other experimental tales, Eventi partiture performance”.
Le artiste nel racconto del corpo femminile
“La performance è un paradigma del femminismo stesso”, afferma l’artista Josephine Withers in “Feminist Performance Art: performing, discovery, tranforming ourself”. Ragionamento ripreso dalla sua collega Cheri Gaulke in “Performance Art of the Woman’s Building”, scrivendo: “Ciò perché noi siamo su un palcoscenico in ogni momento delle nostre vite. Recitando il nostro ruolo di donne. La performance è una dichiarazione del Sé – di chi siamo – una danza sciamanica attraverso la quale entriamo in altri stati di consapevolezza, ricordandoci nuove visioni di noi stesse”.
“E nella performance noi troviamo una forma d’arte che era giovane, senza la tradizione della pittura e della scultura. Senza la tradizione governata dagli uomini. La scarpetta calza alla perfezione, e così, come Cenerentola, noi corriamo”
“La veglia”
L’artista performer mette in scena continuamente il proprio sé attraverso l’azione come in una sorta di seduta psicoanalitica in cui è il corpo a essere il protagonista assoluto. Anche nel lavoro di Romina de Novellis è il corpo il punto di partenza, un corpo che è stato forgiato dal lavoro fisico, dolorosamente perso in frammenti e poi ritrovato grazie a una resilienza non comune. La ripetizione dei gesti, perfetti come possono essere solamente quelli di chi ha praticato la danza a livello professionale, è compiuta da un corpo spesso nudo e fragile come un oggetto sacrificale ma, allo stesso tempo, incredibilmente forte come quello di una guerriera.
Le sue performance sono un invito a condividere la sua intimità, come “La Veglia” (2016), realizzata a Parigi nell’appartamento del critico Marc Lenot. Romina nuda e in ginocchio siede dietro una sorta di schermo realizzato con fili di lana tesi da un muro all’altro. L’artista, come se fosse in meditazione, sempre compiendo lo stesso gesto, lentamente disfa quel muro fittizio togliendo e avvolgendo i fili uno per uno. L’azione cominciata all’alba si è svolta senza interruzione fino al tramonto, filo dopo filo, facendo passare l’artista da uno stato di completa invisibilità durante il giorno alla totale visibilità con il calare del sole, in un gioco di suggestivi svelamenti di opposti.
Circondata dai canti popolari delle contadine salentine, Romina de Novellis, isolata in uno spazio ristretto, ha messo in atto un lavoro performativo ipnotico e ancestrale come un rituale pagano
“La Sacra famiglia”
“La Sacra Famiglia” (2015) è invece una performance corale, una processione di svariate ore attraverso le vie di Napoli, città natale dell’artista, la sera della vigilia. Romina è in testa, vestita di bianco come una vestale contemporanea con i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e un cappone spennato fra le mani come fosse un’offerta sacrificale. Seguita da tutta la sua numerosa famiglia, dalle sale del Museo Archeologico comincia a camminare fino a raggiungere il mare, dove il cibo viene lasciato. Camminare alla testa di un corteo o in circolo, spesso nuda e a piedi scalzi, in un esercizio di meditazione, resistenza e straniamento da se stessa, è una metodologia che ricorre spesso nella pratica performativa di questa artista. Come scrive Federica Boragina:
“La nudità non come condizione subita, ma come scelta, come dichiarazione di autonomia sul proprio corpo. Non è il pittore, il fotografo che chiede alla donna di spogliarsi, ma la donna che si spoglia e decide di mostrarsi”
La libertà delle donne deve cominciare proprio dal corpo, luogo in cui la femminilità è stata ridotta a uno stereotipo passivo e il corpo di Romina rivendica questo diritto mostrandosi orgogliosamente nudo per essere il protagonista dei suoi racconti. Le sue performances sono emotivamente coinvolgenti e nascono sia come racconto personale e intimo che come dialogo con l’ambiente per la sua salvaguardia. Il corpo femminile è corpo in sé, le donne non hanno un corpo, sono corpo e questo corpo è uno strumento creativo non solo da un punto di vista biologico ma anche di pensiero, la performance è quindi la sublimazione di un percorso individuale che, mostrandosi, diventa esperienza collettiva.
L’eco-femminismo
Temi cruciali legati all’eco-femminismo sono alla base della sua prossima performance estiva in Puglia a Galatina, un lungo tavolo in mezzo alla campagna salentina, in una sorta di rivisitazione dell’ultima cena Leonardesca dove l’artista, seduta al centro della tavolata, comincia a mangiare un pasto vegano all’imbrunire con un gruppo di curator* e studios* con cui discuterà di ambiente e di accoglienza fino a notte fonda fra gli ulivi secolari che, nell’indifferenza mediatica, stanno morendo di xyiella.