Dopo la “direttore d’orchestra”, arriva la “ingegnere” e altro ancora

Con l'uscita di Beatrice Venezi a Sanremo, si sono moltiplicate le polemiche sull'uso del femminile nei ruoli apicali

Monica Lanfranco
Monica Lanfranco
Giornalista e formatrice, Direttrice di "Marea", ha fondato Altradimora spazio femminista, e ha pubblicato "Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo" (Erickson)



“Ma insomma se una donna si vuole chiamare direttore, ingegnere, architetto sarà libera di farlo?”. “Proprio le femministe che sproloquiano sull’autodeterminazione femminile vogliono imporre a una professionista come nominarsi?”. “Con tutti i problemi che hanno le donne proprio sulla lingua dovete impuntarvi!”.

Alma Sabatini e “Il sessismo nella lingua italiana”

Alma Sabatini

Queste (le più educate) sono tra le tante argomentazioni che si susseguono da giorni a detrazione di un dibattito che in realtà non si è mai arrestato, e che data dal lontano 1986, quando, a cura delle studiosa femminista Alma Sabatini per conto della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra donna e uomo, uscì Il sessismo nella lingua italiana, linee guida rivolte alle scuole e all’editoria per proporre l’eliminazione degli stereotipi di genere dal linguaggio. Sarebbe utile riflettere, specialmente per chi sostiene che si tratta di questioni noiose e di poco conto, sul fatto che fu una commissione governativa a decidere di affidare a una studiosa dichiaratamente femminista, l’indagine su come maschile e femminile erano adoperati nei libri di testo e nei media. Sabatini determinò che la prevalenza del genere maschile, usato in italiano anche con doppia valenza (il cosiddetto maschile neutro) cancellava la presenza del soggetto femminile e sottolineava che all’appello, significativamente, mancavano tutti i termini femminili quando si trattava di ruoli professionali e di autorevolezza politica (ministra, sindaca, assessora, direttora, architetta, ingegnera, ecc.).

“La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l’immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale” sosteneva Alma Sabatini

Amadeus con Beatrice Venezi a Sanremo

Sembra chiarissimo, eppure. Eppure da quando di Beatrice Venezi dal palco di Sanremo si è chiamata “direttore” perché, a suo dire, il ruolo va nominato così come è, quindi al maschile, seguita a ruota dall’ingegnere Monica Lin, smentita (per fortuna) da Annalisa Corrado, che ha ribadito l’importanza di essere ingegnera, il confronto sui media ha svelato che il cambiamento nella lingua stenta a passare, nonostante alcune significative attestazioni (come il caso degli ordini professionali di Cagliari, Roma, Torino, Milano, Modena, Treviso e Bergamo e Genova, nei quali le donne che intraprendono carriere nell’architettura saranno in maniera ufficiale, e non per gentile concessione, definite architette). Dobbiamo ancora lavorare, a dispetto di fastidio e stanchezza, sul ribadire che le parole sono fondative e che, mettendo al mondo il mondo, ci indicano, quando le scegliamo, che tipo di prospettiva abbiamo.

Luce Irigaray

Luce Irigaray scrisse il saggio “Parlare non è mai neutro” nel 1991, ma Carlo Levi scrisse “Le parole sono pietre” nel 1955, e ancora non abbiamo capito fino in fondo che le pietre sono uno straordinario materiale con il quale si costruiscono ponti e rifugi, concreti e simbolici, ma sono anche capaci di uccidere, se scagliate addosso. Tenere a fuoco la questione del linguaggio è fondamentale in una democrazia. Non solo le donne più giovani, ma ancora tante donne mature, che pure non avrebbero da perdere consenso e potere nei luoghi di lavoro, si comportano, sulla questione dei nomi delle professioni, dando per scontato che nella piramide educativa sociale e politica il nostro sesso, presente in maggioranza ai livelli iniziali della vita, via via scompaia lasciando spazio agli uomini nei luoghi che contano.

Dalla casa alla scuola alla politica è stato ovvio, anche agli occhi di donne colte, che la maggioranza degli esseri umani autorevoli e potenti fosse di sesso maschile

e quindi abbiamo percepito come normale che il maschile sia migliore, dominante, più autorevole, perché da tutta la vita assumiamo che il maschile è sia individuale (il singolo maschio) sia universale (la specie umana), e quindi ci ingloba. Chiamarsi con il nome femminile diventa, pure se è linguisticamente corretto e grammaticalmente necessario, una diminuzione che rende palese l’interiorizzazione della subalternità al sesso di riferimento, non importa se da qualche decennio le donne sono più visibili anche in luoghi poco tempo fa ostili ai loro corpi e ai loro cervelli. Un salto mortale con doppio avvitamento per dire che siamo brave e autorevoli, ma solo se cancelliamo i nostri corpi. Che grande fatica, questa tra tante, che gli uomini non si sognano nemmeno.

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