Coronavirus: i dubbi sull’intervento a favore dei centri antiviolenza

La convivenza forzata aggrava la situazione della violenza domestica ma le azioni di contrasto sono a singhiozzo

Oria Gargano
Oria Gargano
Presidente di Befree, gestisce centri antiviolenza e case rifugio per vittime di tratta in Italia. Ha pubblicato "Seduzioni d'amore. Per una narrazione non convenzionale della violenza contro le donne" (Sapere Solidale)



La violenza contro le donne nelle relazioni intime non è un’imprevista esplosione di crudeltà maschili contro un femminile supino, dipendente e arreso, non è l’imprevisto che trasforma in un luogo orrendo la casetta del Mulino Bianco, ma è un fenomeno sistemico. Vale a dire, avviene perché le relazioni di potere disuguali, il costrutto sociale, le diseguaglianze politiche, economiche e professionali e, soprattutto, le costruzioni culturali lo rendono inevitabile. Le associazioni che gestiscono le Case Rifugio e i Centri Antiviolenza si sgolano da almeno trent’anni per farlo capire. Invano.

L’odierna tragedia dovuta all’esplosione del Covid-19 nel mondo non fa che confermare l’endemica incapacità della Politica, della Scienza e dell’Informazione a comprenderlo

Nessuno dei DPCM (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, ndr) finora varati, né le ultime disposizioni, si sono soffermate a considerare l’impatto drammaticamente prevedibile delle misure di confinamento in casa (peraltro, sul piano medico, assolutamente giuste) sulla situazione di molte persone: dei non garantiti, dei non organici al sistema, dei collaterali. Sassolini che inceppano il meccanismo della normalizzazione. Anzi, che ne vengono stritolati.

Nessuno ha pensato che “casa” non è per tutti la stessa cosa, e cito velocemente: la popolazione carceraria, includendovi dentro i e le migranti rinchiusi nei Centri Per il Rimpatrio (CPR), prigioni per persone che non hanno compiuto nessun reato penale essendo l’irregolarità, rispetto alle assolutamente inadeguate disposizioni vigenti in materia d’immigrazione, tutt’al più reati amministrativi. Oppure i centri di accoglienza, caotici, enormi, dalla promiscuità inevitabile. Nessuno ha pensato alle migliaia di persone che “casa” non ce l’hanno, e risulta dalle cronache che in molti siano stati fermati e multati nel corso dei controlli circa il rispetto delle nuove, straordinarie norme.

Nessuno ha pensato alle donne per le quali la casa è il luogo della violenza, del maltrattamento, della sofferenza, dell’indicibile

E neanche ai bambini e alle bambine che vedono il padre agire quella violenza contro la madre e talvolta contro loro stessi. Questo dato, semplicemente, non è venuto in mente ai decisori della politica. Nonostante siano disponibili le cifre di un’ecatombe silenziosa, costante, e sottostimata. Ecco: questa dimenticanza racconta, più di qualsiasi circostanziata analisi, le cause, le implicazioni e gli effetti della violenza di genere.

Nella quotidiana conferenza stampa della Protezione Civile del 21 marzo un giornalista ha rivolto al professor Silvio Brusaferro dell’Istituto Superiore di Sanità una domanda piuttosto articolata su questo tema. Il Professore, sicuramente adeguato a rispondere sulla pandemia, i suoi effetti e le previsioni medico-scientifiche che possono farsi, è parso cadere dalle nuvole e, forse spaventato dal possibile schianto, ha virato in corsa come neanche un bolide a Le Mans: ha tirato fuori la necessità di tornare a parlarsi in famiglia, che sarebbe cosa buona e giusta se ogni famiglia fosse fondata sul rispetto e sul riconoscimento, e poi si è soffermato sulla cura che i babyboomers come lui debbono ai propri genitori anziani.

In altri termini, non ha capito la domanda. Oppure, l’ha capita ma ha evitato di rispondere, perché impreparato. È l’intero Sistema a essere impreparato, come il Governo in tutte le sue articolazioni, come la pubblicistica e la pubblica opinione. Le organizzazioni antiviolenza hanno dovuto strepitare perché si dessero risposte a temi talmente semplici da apparire quasi banali: i Centri di consulenza per donne maltrattate sono servizi essenziali o no? Debbono chiudere o restare aperti? E, se rimangono aperti, le donne che vi si recano per una consulenza potranno giustificare il loro essere fuori casa a un eventuale controllo?

In altri termini, recarsi per un colloquio a un Centro Antiviolenza sarà considerato motivo di “necessità e urgenza” dal poliziotto o dal vigile urbano che le ferma per un controllo routinario? Le operatrici delle case rifugio come debbono gestire la crisi sanitaria? Essendo pienissimi di nuclei madri-minori, non potranno certo esimersi dalla presenza quotidiana. Esisteranno presidi sanitari per loro e per i loro cosiddetti  “utenti”? Le risposte sono arrivate a singhiozzo, e sono state parziali. Il Governo, le Regioni, i Comuni, in linea di massima, non hanno certo potuto negare che il problema esposto fosse un quesito di senso. E le risposte sono arrivate, in molti territori.

Circolari in cui si riconosceva il nostro lavoro, e ci si esortava a rimanere aperte. va Benissimo Ma con quali modalità?

Se il lavoro nei centri antiviolenza, che non contemplano l’ospitalità, veniva incoraggiato a continuare essenzialmente “da remoto” (modalità che può essere praticata con le donne già nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, ma molto di meno con quelle che ancora il percorso non l’hanno iniziato), ben più complicato appare, tuttora, il lavoro nelle case rifugio.

Qui, le donne vivono con i loro bambini e bambine una cattività del tutto inedita. Non debbono essere recluse “soltanto” per non farsi rintracciare dal partner violento, ma per non contrarre il virus. Le organizzazioni antiviolenza hanno chiesto sostegni concreti. Sanificazioni degli stabili affollatissimi quasi mai ottenute. Dotazioni di mascherine e guanti usa e getta per le ospiti e anche per le operatrici, che vanno a turno attraversando zone urbane infettate. Ed anche questa richiesta è stata disattesa. Possibilità di sottoporre a tampone le ospiti o, a maggior ragione, le donne appena accolte. Quest’ultima richiesta appare davvero impossibile da soddisfare: molte Regioni se la sono cavata decretando che le nuove ammissioni siano segnalate al Centro Covid territoriale che incontrerà la donna, le rivolgerà la domanda alla quale, in mancanza di sintomatologie, nessun cittadino sa rispondere: se è positiva o no al Coronavirus.

in base alle (prevedibili) risposte darà il nulla osta per l’inserimento nella Casa Rifugio, dove tutte le donne ospitate da tempo la guarderanno con timore, come a un’untrice. Dove cura, profilassi e attenzione sarebbero, invece, fondamentali strumenti di politica sociale. L’incuria verso il fenomeno della violenza di genere è innumerevoli cose, ed è anche queste.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

News

Facebook

Twitter

On screen

[elfsight_youtube_gallery id="1"]