Le donne di Srebrenica: ritirate quel Nobel per non negare un genocidio

Bufera per il premio allo scrittore austriaco filo-serbo Peter Handke amico del "macellaio dei Balcani" Milošević

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice DonnexDiritti International Women



La decisione di assegnare il premio Nobel per la letteratura allo scrittore austriaco filo-serbo Peter Handke, non è andata giù alle Žene Srebrenice (Donne di Srebrenica), gruppo che raccoglie le madri, mogli, figlie e sorelle delle vittime del genocidio compiuto dai serbi nella guerra degli anni Novanta in ex Jugoslavia. «Un uomo che ha difeso i carnefici delle guerre balcaniche – ha detto Munira Subasic, presidente dell’associazione – non può ricevere un tale riconoscimento», ed è per questo che «invieremo una lettera ufficiale al Comitato per il Nobel della letteratura chiedendo il ritiro del premio», in quanto si tratta di «un messaggio negativo per l’intera umanità».
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Una notizia, quella del Nobel, commentata dal «Times» con un giudizio negativo verso l’accademia svedese che così «si macchia di un disonore che non potrà mai più cancellare», mentre la scrittrice Jennifer Egan, presidente dell’associazione Usa per la libertà d’espressione Pen America, ha precisato di essere sconvolta «per la scelta di uno scrittore che ha usato in passato la sua posizione per minare la verità storica e offrire aiuto ai perpetratori del genocidio». Giudizi negativi condivisi anche dal presidente kosovaro Hashim Thaci e dal primo ministro albanese Edi Rama, disgustati dalla notizia, nonché dall’ambasciatrice del Kosovo in Usa, Vlora Çitaku, che su Twitter ha commentato: «Sono scioccata, è uno schiaffo a tutte le vittime del regime di Miloševic». Una bufera che ha avuto come risultato anche una petizione su Change.org per revocare il premio, in linea con le Madri di Srebrenica, in quanto

una persona che difende un mostro come Miloševic non merita di ricevere un semplice riconoscimento letterario figuriamoci un Nobel

REED-Susan-Srebrenica-Banner-1000x547Handke è accusato di aver negato i crimini compiuti dai serbi e di essere un «apologeta del macellaio dei Balcani», Slobodan Milošević, che ha sostenuto fino alla fine andando ai suoi funerali nel 2006. Nel 1999 Handke aveva scritto sul «Guardian» di non credere affatto che i serbi avessero potuto uccidere migliaia di musulmani a Srebrenica, e nel suo libro A Journey to the Rivers: Justice for Serbia ha fatto di tutto per non dare credito all’omicidio di massa, offrendosi anche di testimoniare durante il processo per Milošević, morto mentre era detenuto a L’Aja in attesa di essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Nel massacro del luglio 1995 furono trucidati 8372 bosniacchi dall’armata serba guidata da Ratko Mladić

_MG_0801bnInsieme al gruppo paramilitare degli Scorpioni, l’esercito della Republika Srpska (VRS) entrò nella cittadina che era sotto assedio già da tre anni ma che era stata decretata nel ’93 «area protetta» dall’Onu e per questo sotto la protezione del contingente olandese dell’UNPROFOR. Violando la risoluzione 819 delle Nazioni Unite, i serbi entrarono e cominciarono a radunare e uccidere tutti i maschi tra i 15 e i 65 anni, dividendoli da donne, bambini e anziani: corpi che furono dispersi in fosse comuni, rendendo così difficile recupero e identificazione, e a cui si è risaliti solo grazie ai superstiti e ai documenti raccolti nei processi per i crimini di guerra.

A Srebrenica e nei dintorni vennero deportati 23mila bosniaci e i caschi blu olandesi, su pressione dei soldati serbi, costrinsero i rifugiati a lasciare la base protetta fuggendo nei boschi in quella che viene ricordata come «la marcia della morte», dato che vennero presi e decimati dalle esecuzioni. Una vergogna che costrinse il primo ministro olandese Wim Kok alle dimissioni nel 2002, dopo che vennero documentate le gravi mancanze commesse dalle unità olandesi nel gestire l’emergenza.

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Peter Handke

Per questo massacro furono giudicate 70 persone accusate di crimini di guerra, di cui 20 dal Tribunale dell’Aja e 50 dal tribunale di Sarajevo, e 13 imputati furono condannati all’ergastolo, tra cui Ratko Mladić, generale della VRS, e Radovan Karadžić, presidente della Republika Srpska. Nel 2007 la Corte internazionale di giustizia stabilì che quello di Srebrenica fu un genocidio, in quanto commesso con lo scopo preciso di distruggere il gruppo etnico dei bosniaci: una decisione confermata nel 2017 dalla Corte dell’Aja che ritenne anche il governo olandese parzialmente responsabile della morte di 300 rifugiati, costretti da loro a lasciare la base, «privandoli così della possibilità di sopravvivere».

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