La storia è presto detta: una ragazza viene stuprata a 17 anni da un ragazzo di 18 che era stato suo compagno di scuola alle medie, il ragazzo si autodenuncia e viene condannato, mentre la ragazza rimane incinta e decide di tenersi il bambino. A 5 anni dalla violenza, lo stupratore decide di voler riconoscere il bambino dal carcere, cosa che glie viene concessa dal tribunale ordinario, e sua madre fa richiesta in quanto nonna di frequentare il piccolo, che ha 4 anni, per facilitare anche la possibilità d’incontro tra l’uomo e quello che lui rivendica come suo figlio.
Una storia inventata e recitata da attori nel programma televisivo “Forum” condotto dalla giornalista Barbara Palombelli su Canale 5, ma giudicata da un giudice vero, la ex presidente del Tribunale dei minori di Roma, Melita Cavallo, che emette sentenza, e che in questo caso permetterà alla madre dello stupratore di frequentare il piccolo almeno ogni 15 giorni, auspicando anche la costruzione di un rapporto tra l’uomo e il bambino che comincerà vedendolo una volta al mese presso i servizi sociali.
Sentenza emessa contro la volontà della madre del piccolo, Carlotta, che si è opposta con tutte le sue forze a introdurre chi l’ha violentata nella vita del figlio. Una storia “inventata” ma che in realtà sembra ricalcare la vicenda di Sammy Woodhouse che nel novembre dello scorso anno era finita sui giornali di tutto il mondo per l’indignazione verso la storia di una donna che dopo aver tenuto il figlio di uno stupro, si era vista riconoscere da parte del tribunale inglese il diritto del suo stupratore ad avere rapporti col figlio: un caso che aveva scatenato non poche polemiche e una petizione per cambiare una legge che non tiene conto della volontà della sopravvissuta allo stupro. Un caso che aveva visto prendere posizione un’ampia opinione pubblica a favore di Sammy, costretta contro la sua volontà a veder rientrare nella sua vita il suo stupratore, e alle prese con una nuova sofferenza creata proprio da quelle istituzioni che l’avrebbero dovuta tutelare nella ripresa di una nuova vita, in cui il ricordo dello stupro fosse il più lontano possibile.
Tornando in italia e al format televisivo di “Forum” che propone un dibattimento negli studi televisivi tra attori sui temi più disparati e si conclude però sempre con una sentenza emessa da un vero giudice sulla base della legge italiana, la puntata di ieri, 23 gennaio, ha scatenato l’ira dei social che non hanno gradito né la sentenza né la rivittimizzazione fatta durante la trasmissione nei confronti della ragazza stuprata, e del messaggio che un dibattimento del genere può trasmettere a chi guarda. Il primo commento arriva da un gruppo su Facebook in cui viene espressa indignazione e in cui si sottolinea la minimizzazione dello stupro considerato come un trauma che doveva essere stato già superato, un episodio che in ogni caso non può essere considerato come un ostacolo alla costruzione del rapporto tra padre e figlio.
Critiche che in serata aumentano con forte indignazione per il messaggio passato dal programma
Una indignazione che fa prendere posizione netta anche alla Rete nazionale dei centri antiviolenza che su twitter parla di rivittimizzazione secondaria in tv
Quello che in realtà sconvolge di più è il comportamento della giudice che tratta l’attrice che impersona Carlotta, la ragazza stuprata a 17 anni, come una povera esagitata che in realtà è stata complice del suo stupro a 17 anni in quanto quella sera aveva bevuto col suo stupratore.
La donna è quasi costretta a giustificarsi nel racconto della violenza subita
e viene fatta apparire come una che non ha mai superato un trauma che invece avrebbe dovuto aver superato da un pezzo, una che ostacola il rapporto tra un padre e un figlio con un giudizio che non tiene affatto conto che quell’uomo, di cui vengono tessute le lodi per il suo comportamento in carcere e per il fatto che ha messo dei soldi da parte destinati al bambino, sia in realtà uno stupratore che ha rovinato la vita alla ragazza la quale non aveva mai avuti altri rapporti prima della violenza. E malgrado si tratti di una finzione l’accento rivittimizzatorio è evidente. La giudice Melita Cavallo dice testualmente: “Ogni bambino ha desiderio di suo padre.
Quest’uomo in carcere si è comportato in modo encomiabile tanto è vero che se avesse avuto una difesa più ferrata sarebbe già uscito. (…) Ora lavora e ha messo da parte del denaro per questo bambino, ha fatto tutto quello che poteva fare”. Nei confronti di Carlotta afferma: “Lei non ai è fatta seguire. Lei ha seguito un supporto a questo suo trauma? Non bene altrimenti non sarebbe così violenta qui”. Inoltre sullo stupro ribadisce:
“Risulta dal processo che avevate bevuto. Anche lei aveva partecipato al bere eccessivo e si era recata in questo posto. Se lei aveva 17 anni lui ne aveva 18, non ne aveva 40, e non è uguale”
Perché signora Giudice non è uguale? ci sono forse stupri di serie A e stupri di serie B? La giudice zittisce più volte Carlotta che cerca in maniera esagitata di esprimere la sua paura a far entrare quell’uomo nella sua vita e in quella del figlio, e lo fa in maniera stizzita senza comprenderne il dramma che è quello di una donna stuprata quando era minorenne, che ha deciso di diventare madre di un figlio nato da uno stupro e che vede la sua vita sgretolarsi nuovamente e in maniera permanente per la decisione di un tribunale che permette a uno stupratore di riconoscere il figlio e di frequentarlo grazie a una legge che andrebbe rivista: c’è qualcosa di più orribile? Non credo. Ebbene allora perché compartecipare a questo abominio rivittimizzando apertamente, sia nei contenuti sia nei modi, la donna che invece andrebbe tutelata e ascoltata in qualunque modo? Perché emettere una sentenza così atroce che non tiene conto della gravità dello stupro né della volontà della donna che lo ha subito e che non ha interrotto la gravidanza?
I diritti non sono quelli di uno stupratore che all’improvviso, dopo anni, si accorge di essere padre, ma quelli, in questo caso calpestati, delle donne che hanno diritto a vivere fuori dalla violenza e di rifarsi una vita lontana dal proprio stupratore, che comprende anche il diritto di un bambino a vivere lontano da un genitore che ha violentato sua madre per metterlo al mondo.
Un dramma che in ogni modo va ascoltato e capito, e non calpestato come si è visto fare in questa trasmissione in cui la sopravvissuta è stata messa sul banco degli imputati, mentre l’uomo che ha usato violenza è stato quasi giustificato e lodato per il suo operato e incoraggiato a fare il padre come se quello che ha commesso fosse un reato di serie B e come se 5 anni di carcere, senza nessun aiuto da parte di un Cam, possano essere sufficienti a far cambiare un uomo violento. I messaggi che sono passati a Forum ieri appartengono alla peggior letteratura della rivittimizzazione e non importa che siano stati finzione, sia perché tratti da storie reali, sia per le parole e i modi usati verso Carlotta e la sua storia che potrebbe essere la storia di molte donne.
Ma quello che rattrista di più è che la stessa Palombelli, dopo che per mezz’ora si è parlato di stupro in tutte le salse, si esprima dicendo di voler sentire i ragazzi in studio e comincia con l’incipit: “tutto parte da due ragazzini che hanno bevuto troppo e quindi si lasciano andare”, disconoscendo così completamente la violenza sessuale avvenuta ai danni di Carlotta e percorrendo il sentiero rivittimizzante della giudice Cavallo in una generale atmosfera di giustificazione verso l’uomo in quanto padre. Un uomo potenzialmente ancora pericoloso sia per la donna che per il bambino, dato che fino a prova contraria non basta scontare una pena per non essere recidivi. Una giudice che dimentica come nella Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica (anche quella è legge in Italia) sia vietata la vittimizzazione secondaria dall’Articolo 15 sulla Formazione delle figure professionali in cui si recita: “Le Parti forniscono o rafforzano un’adeguata formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria”.
Una formazione che evidentemente manca alla giudice che nei confronti di Carlotta fa un affondo preciso quando dice: “Lei è la vittima e ha avuto come risposta la pena che è stata irrogata al ragazzo, adesso non sarà sempre vittima altrimenti questo bambino che ha per madre una che si sente ogni giorno vittima, che non ha superato lo stress emotivo”, concetto ribadito poi nella sentenza.
Una frase che ricorda qualcosa, ma cosa? In realtà è un neanche troppo velato riferimento alla capacità genitoriale della donna che potrebbe essere considerata forse instabile e incapace di educare suo figlio? Insinuazioni che spesso si leggono nelle Ctu che accusano le mamme di alienazione parentale, donne che denunciano una violenza domestica e poi si ritrovano accusate loro stesse di essere malevoli, e punite con la sottrazione dei figli che vengono messi in casa famiglia o addirittura affidati a padri maltrattanti. Una teoria, quella dell’alienazione parentale, che il senatore leghista Pillon ha cercato di far passare nel Disegno di legge 735 provocando l’ira e la richiesta di ritiro immediato del ddl da parte dell’intera società civile, dei centri antiviolenza, e da parte di associazioni di avvocati e giudici esperti di diritto di famiglia.
E poi di cosa ci accorgiamo? Che la ex presidente del tribunale dei minori ha sempre appoggiato l’alienazione parentale, quella pseudo teoria mai dimostrata scientificamente, respinta dall’Istituto superiore di Sanità, condannata in una sentenza in Cassazione, vietata in Francia dal 5° piano antiviolenza, bandita negli Stati Uniti dove è nata per i danni che ha provocato, e ancora presente nei tribunali italiani con conseguenze di grave esposizione alla violenza da parte di chi la subisce.