Starbucks negli Stati Uniti ha raggiunto la parità salariale per uomini, donne e dipendenti di tutte le razze. Lucy Helm, vicepresidente esecutivo dell’azienda, ha detto che “il divario retributivo di genere è reale e Starbucks si impegna non solo a parlarne, ma ad affrontarlo”. Altre aziende stanno seguendo l’esempio della catena del caffè ma è evidente che siamo ancora troppo indietro. Se mettiamo insieme i numeri della violenza maschile in casa o fuori casa, le molestie sessuali, la disparità salariale e le discriminazioni sul lavoro e in ogni luogo pubblico o privato, per le donne non è affatto facile alzarsi la mattina e affrontare la giornata. Secondo uno studio di Ipsos
in 27 paesi le molestie sessuali sono viste come il tema di maggior peso per l’uguaglianza tra i sessi (32%), mentre il tema della parità salariale arriva al 19%
Ma come hanno affrontato il problema i governi europei (se lo hanno affrontato)? Per Anuradha Seth, consigliere delle Nazioni Unite, si tratta del “più grande furto della storia”. Non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini”. Così ha detto presentando i numeri del Gender Pay Gap (divario retributivo di genere, ndr) secondo cui le donne guadagnano il 23% in meno degli uomini a livello mondiale. Un dato che migliora in Europa con una differenza di salario che per l’Eurostat è del 16%, con donne che per lo più lavorano in settori meno pagati, con meno promozioni, più pause per maternità e che spesso non sono neanche retribuite.
Un termometro che ha spinto l’Unione europea a lanciare per il 2019 un Piano d’azione puntando all’elaborazione di “obblighi legalmente vincolanti” per gli Stati membri. In realtà una legislazione che garantisca l’uguaglianza salariale esiste già in diversi Paesi e recentemente è stata proprio l’Islanda – al primo posto da 8 anni nella classifica del World Economic Forum come il miglior Paese per l’uguaglianza di genere – a introdurre una norma che obbliga le aziende con almeno 25 impiegati a fornire annualmente al governo una documentazione dettagliata sull’uguale retribuzione. Una norma la cui applicazione sarà garantita – a differenza di altri Stati – dal Lögreglan, la polizia tributaria e un reparto speciale delle forze dell’ordine, con controlli a tappeto da ora fino al 2022. Ma la presenza di norme non garantisce la loro applicazione.
Come accade per la Finlandia che, con un gap gender pay del 18%, da 10 anni invita le aziende ad applicare sistemi di revisione retributiva tra i sessi; o la Svezia che, pur avendo dal 2009 una legge che impone alle aziende di eliminare le disparità salariali, è ferma al 14,6%; o ancora la Francia, che malgrado la legge del 2006 che prevede forti sanzioni per le aziende con 50 impiegati che non rispettano la parità salariale, ha un gender pay gap del 15,3%. Più recenti invece le norme introdotte in Germania, dove il tasso di disparità è tra i più alti in Europa (22,6%), con una legge che obbliga le aziende con più di 200 dipendenti (in Germania sono 18 mila) a rendere pubblico a chiunque quanto viene pagato un/una dipendente a parità di mansione; e quelle del Regno Unito (18,3%), dove le società con oltre 250 dipendenti (34% della forza lavoro inglese) dovranno pubblicare, d’ora in poi annualmente, i dati degli stipendi e dei bonus di uomini e donne. Il Belgio, dove il gender pay gap è tra i più bassi (9,9%), è stato il primo Paese a fare campagne contro la disparità salariale istituendo la Giornata della parità retributiva dal 2005; e nel 2012 ha varato una legge che obbliga le imprese con più di 50 dipendenti a redigere ogni 2 anni un rapporto e, se vi sono disparità, a definire un piano di azione che risolva il problema.
In Italia (6,5%) la legge è del 1991 – applicata poi dal 1996 – e prevede che le imprese con più di 100 dipendenti forniscano un rapporto sul rispetto di genere nelle retribuzioni con sanzioni per chi non si attiene all’obbligo, anche se in realtà questi rapporti, che dovrebbero essere valutati dalle Regioni con controlli accurati, sono fermi da circa due anni. Per Loredana Taddei, responsabile nazionale delle politiche di genere del più importante sindacato italiano (Cgil), la situazione non è affatto rosea: “Da noi si fanno molti convegni, ma manca la volontà politica di cambiare le cose. Non c’è nessun Paese avanzato messo male come il nostro e negli ultimi 10 anni siamo solo peggiorati. L’occupazione femminile resta tra le più basse d’Europa e
in Italia lavora 1 donna su 2 perché l’unica cosa che cresce è la precarietà
Nelle aziende dove si applica il contratto nazionale non c’è una differenza salariale, ma non in tutte le aziende viene applicato e le differenze si creano in tanti modi, a partire dall’imposizione del part time che supera ormai il 60%”. Per non parlare della difficoltà per una donna di fare carriera o un figlio: una donna su quattro in Italia abbandona l’impiego a causa della maternità e solo 43 su 100 riprendono poi a lavorare.