Nel giro di un mese, la protesta contro la legge Gallardón, cominciata su twitter con l’hashtag #MiBomboEsMio (il mio pancione è mio), è diventata virale con una continua adesione al documento “Porque Yo decido”, reperibile online e ormai tradotto in sette lingue. E anche se l’epicentro della protesta è Madrid, il primo febbraio le donne scenderanno a manifestare sotto le ambasciate e i consolati spagnoli in diverse città del mondo: Roma, Milano, Napoli, Firenze ma anche a Londra, Parigi, Dublino, Lisbona, Buenos Aires, Quito e Santo Domingo; chi non potrà esserci può comunque inondare di email le ambasciate spagnole.
Il progetto di legge, che vorrebbe sostituire la precedente “Legge per la salute sessuale e riproduttiva e per l’interruzione volontaria della gravidanza” approvata da Zapatero nel 2010, si chiama “Protezione dei diritti del concepito e della donna in gravidanza”: un progetto contro cui si è schierato tutto l’arco parlamentare di opposizione spagnolo – dal Psoe a Izquierda Unida, al partito nazionalista basco – e che ha spaccato anche il partito popolare di Rajoy (al punto che la sua conversione in legge è stata rinviata a dopo le elezioni europee).
Una riforma che avrebbe come scopo “aumentare la natalità” e “favorire la maternità”, senza il consenso della donna
In Italia le donne e le associazioni che si sono schierate con le spagnole sono in continuo aumento e vanno dai centri antiviolenza alla Casa internazionale delle donne di Roma, passando per l’Udi, le giornaliste di Giulia, Snoq Factory, Cgil Roma e Lazio, Punto D, Assolei, Differenza Donna, Zero violenza donne, Laiga e moltissime altre sigle e gruppi (tutte le adesioni sono sul sito Womenareurope). Per portare fisicamente il testimone di questa adesione, il primo febbraio partirà anche una delegazione da Firenze, dove è nata la rete di solidarietà italiana. Ma l’indignazione delle donne europee in materia di tutela della salute riproduttiva parte da prima del caso spagnolo, ovvero dalla bocciatura nell’Europarlamento della cosiddetta “risoluzione Estrela” in cui si chiedeva, oltre a un impegno dell’Europa sulla tutela della salute riproduttiva, anche di regolamentare l’obiezione di coscienza in quanto “i casi di Slovacchia, Ungheria, Romania, Polonia, Irlanda e Italia” dimostrano come ormai “il 70 per cento dei ginecologi e il 40 per cento degli anestesisti coscientemente evitano di fornire servizi sull’aborto” in una parte importante dell’Europa.
La risoluzione, presentata dell’eurodeputata socialista portoghese Edite Estrela, è stata contestata dai conservatori e dalle destre, ma affossata poi dalla decisiva assenza di un gruppo di europarlamentari italiani del Pd. Nel rapporto si sottolinea il fattto che “più di un quarto degli Stati membri non dispone di dati sulle percentuali di interruzioni di gravidanza seguite da un professionista medico specializzato”, in altre parole sugli aborti clandestini.
Secondo l’Oms (Organizzazione mondiale sanità), l’aborto non sicuro rimane una delle quattro principali cause di morte e lesioni in tutto il mondo connesse alla gravidanza, insieme a emorragia, infezioni e ipertensione; e nonostante i grandi miglioramenti recenti nel tasso globale di mortalità materna, la percentuale di decessi attribuibili all’aborto non sicuro è stabile al 13% ovvero a 47.000 morti ogni anno: decessi che si verificano per la maggioranza in paesi con leggi molto restrittive. A questo vanno aggiunte gli 8 milioni di donne che soffrono di lesioni gravi, e talvolta permanenti, a seguito di complicazioni da aborto candestino, e circa 3 milioni di adolescenti che rischiano la vita con aborti illegali. Un paio di anni fa la rivista scientifica Lancet, pubblicava il rapporto del Guttmacher Institute (NY, Usa), dove Gilda Sedgh, tra le autrici dello studio, sottolineava che “la quota crescente di aborti è nei paesi in via di sviluppo” ovvero “dove queste procedure si svolgono spesso in modo clandestino e pericoloso”. Lo studio riferiva che
dal 2003 in poi, gli aborti annuali erano calati di 600.000 nei paesi sviluppati, ma erano aumentati di 2,8 milioni nei paesi emergenti
e che se nel 2008 si erano registrati 6 milioni di aborti nei paesi ricchi, nei paesi emergenti ce n’erano stati 38 milioni. Secondo lo studio l’Europa occidentale, il Nord America e il Sud Africa (dove il 90% delle donne è tutelato dalla South Africa’s liberal abortion law del ‘97), hanno il più basso tasso di aborti nel mondo, mentre l’America Latina e l’Africa, soprattutto dove la legislazione sull’aborto è restrittiva, il tasso di abortività è molto più alto. Una variante importante, sottolinea la ricerca, è l’accesso alla contraccezione. Un esempio: se l’aborto è ampiamente legale sia in Europa occidentale che in quella orientale, la percentuale di aborti più alta nell’est (il 43 per 1.000 contro il 12 per 1000 nell’Europa occidentale) è causata dal minore uso dei contraccettivi.
E’ da situazioni come queste che si deduce come il fattore culturale e di educazione alla sessualità rimanga primario ovunque, e che la semplice legalizzazione dell’aborto non basta. Un altro esempio è l’India dove, sebbene l’aborto sia legale dal 1971, esiste un’alta percentuale di donne che ricorrono all’aborto clandestino e non sicuro “perché rimangono all’oscuro della legge – spiega il rapporto – e non riescono a superare gli ostacoli culturali, finanziari e geografici per avere acesso a servizi in condizioni sanitarie sicure e con medici professionisti”.
Altri esempi anomali sono l’Irlanda (dove solo di recente è stata introdotta una legge che permette l’aborto in caso di pericolo della madre – compresa la minaccia di suicidio e il disagio psichico) e Malta (dove ancora è illegale abortire). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, le morti legate alla gravidanza sono rare sia in Irlanda che a Malta perché le donne sono state sempre in grado di spostarsi facilmente nei paesi vicini dove l’aborto è legale (da non dimenticare il caso di Savita Halappanavar, la donna di origine indiana morta di setticemia in un ospedale irlandese nel 2012 perché i medici si erano rifiutati di eseguire l’aborto).
In conclusione, e sempre secondo lo studio del Guttmacher Institute, “il numero di aborti può essere ridotto evitando gravidanze indesiderate attraverso un maggiore accesso ai servizi di pianificazione familiare di qualità”, anche se per gli aborti possibili “i servizi non sicuri devono essere sostituiti da servizi sicuri, per il bene della salute e della vita delle donne”, ed è per questo che “i governi hanno l’obbligo di rimuovere le barriere giuridiche penali o di altro genere ai servizi, in modo che questo aspetto fondamentale del diritto umano globale alla salute possa essere pienamente realizzato, come ormai riconosciuto anche da il rapporto 2011 del Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani”.