E’ vero, i media hanno un ruolo fondamentale, sia che cerchino di restituire una narrazione corretta senza cadere in un racconto stereotipato e discriminatorio delle donne, sia che invece ricalchino il solito schema maschilista rivittimizzante. Eppure, sebbene si sia cominciato a parlare di violenza maschile sulle donne e di femminicidio in maniera più aderente alla realtà anche nel main streaming – grazie al lavoro e al movimento delle donne senza il quale tutto quello che abbiamo non sarebbe oggi qui, davanti ai nostri occhi – quello delle molestie sul lavoro è ancora un tabù. Perché se è vero che i media si occupano sempre di più di violenza maschile sulle donne parlando di femminicidio, quello delle molestie sul lavoro rimane un ambito ancora poco narrato e questo per ragioni prettamente culturali, in quanto il lavoro è un ambito in cui il potere maschile gioca in un modo che per molti è ancora nell’ambito di comportamenti normali, dove le molestie non vengono addirittura spesso neanche riconosciute.
La breccia del #metoo ha fatto emergere un mondo silenziato
dove migliaia di donne si sono raccontate senza paura di essere giudicate e grazie a un enorme supporto reciproco. Un fenomeno su cui non è stato possibile tacere e sul quale i media hanno avuto un ruolo fondamentale, con alcune differenze che adesso andremo a vedere, soprattutto tra la stampa italiana e quella straniera. Ormai è noto come tutto sia iniziato quando il 10 ottobre 2017 il New Yorker ha pubblicato l’inchiesta di Ronan Farrow dove più di trenta donne hanno raccontato le violenze e molestie subite da parte di Harvey Weinstein, il potente produttore hollywoodiano.
Un uomo descritto dal suo autista come uno che in Costa Azzurra “era noto come le porc”
Un’onda che ha travolto non solo il mondo dello spettacolo ma anche la finanza, la politica, le grandi aziende e il giornalismo, provocando indagini, licenziamenti, allontanamenti spontanei e ovviamente molte denunce. Un’onda lunghissima che non intende ritirarsi, se pensiamo che solo due giorni fa negli Stati Uniti, uno degli uomini più potenti della tv americana, Leslie Moonves, si è dimesso da ceo della Cbs, travolto dallo scandalo delle molestie sessuali.
Nel Regno Unito un’indagine è stata aperta alla BBC ma soprattutto nel parlamento dove la premier Theresa May ha istituito una commissione d’inchiesta sulle molestie che ha già prodotto un corposo dossier con nomi di parlamentari, ministri e sottosegretari, sui quali i media si sono concentrati in maniera sistematica. Negli Usa è stata creata la Shitty Media Men di Moira Donegan – ex editor del New Republic – in cui le donne possono segnalare abusi sul posto di lavoro, mentre Karen Kelsky ha creato una lista che riporta le molestie nelle università, e su Tumblr, The Industry Is not Safe , pubblica anonimi racconti di molestie nell’industria musicale. Le donne che sono state aggredite da Harvey Weinstein hanno creato un documento di Google creando così un resoconto di quante donne fossero coinvolte. A livello mediatico l’impatto è stato così dirompente e ha richiamato così tanto interesse, che il New York Time non solo ha sostenuto le voci delle donne che hanno denunciato le molestie a Hollywood ma ha proseguito raccontando le storie di donne coraggiose che negli Stati Uniti hanno denunciato soprusi e molestie, inserendo anche una esperta di genere “che dal suo particolare punto di vista” sovrintende a tutti i contenuti riguardanti questi temi.
La scelta più forte però l’ha fatta il Time che ha dedicato una copertina a #metoo come personaggio dell’anno con una foto in cui figurano l’attrice Ashley Judd, una delle prime ad accusare Weinstein, Susan Fowler, ex lavoratrice di Uber che ha denunciato le molestie all’interno dell’azienda, Adama Iwu, che ha lanciato la campagna “We said enough”, la cantante Taylor Swift, che ha portato in tribunale il conduttore radiofonico David Mueller, e Isabel Pascual, una lavoratrice messicana.
Ma la cosa più interessante è stato il braccio di una donna rimasto senza volto, una donna che lavora in un ospedale e ha chiesto di restare anonima per proteggere la sua vita: un braccio parlante che rappresenta tutte le donne che sono state vittime di abusi o violenza sessuale ma non hanno voluto parlare pubblicamente. E questo perché una donna che non se la sente di denunciare apertamente deve essere rispettata, in quanto non può essere messa in discussione la sua parola solo perché non vuole apparire. Un passo da gigante, se paragonato ai giornali italiani che invece di sostenere il movimento #metoo, ancora oggi tendono a rivittimizzare e a mettere continuamente in dubbio la parola di chi denuncia una violenza. Uno scetticismo che è l’arma più potente della cultura dello stupro ancora così difficile da abbattere.Una scelta, quella del Time, che è stata criticata sul Giornale che ha scritto che “la persona dell’anno è la caccia alle streghe spacciata per coraggio”, mentre
il Foglio ha sostenuto che il fenomeno dell’anno fosse “la guerra al maschio”
Ma se è vero che i media, soprattutto americani, hanno dato spazio e voce alle donne che hanno cominciato a raccontare la realtà, è anche legittimo capire come si è arrivati a questo, e la prima domanda che viene alla mente è: da quanto tempo Weinstein molestava tutte queste donne? e perché nessun giornale se ne è mai occupato?
Diversi giornalisti hanno cercato di pubblicare invano inchieste su quello che si sapeva da anni: inchieste che puntualmente, per le pressioni ricevute da Weinstein, sono state messe nei cassetti di diverse redazioni. Lo stesso Ronan Farrow si è visto rifiutare la pubblicazione della sua inchiesta alla NBC, dove lavorava, un’inchiesta che invece il New Yorker ha avuto il coraggio di pubblicare dando l’avvio a uno dei più grandi rivolgimenti della storia. E questo a dimostrazione non solo che i tempi erano maturi ma anche che cambiare rotta è possibile e che la potenza dell’informazione può innescare delle vere e proprie rivoluzioni culturali epocali, come è successo per #metoo: un hastag usato circa dieci anni fa Tarana Burke, femminista e attivista, e riproposto dall’attrice Alyssa Milano dopo la pubblicazione dell’inchiesta e accolta da milioni di donne nel mondo.
Lo sconquasso nel mondo è stato tale che quando qualcuno, come per esempio Woody Allen, ha cercato di parlare di una nuova caccia alle streghe, o di libertà di molestare, come Catherine Denevue, non sono stati neanche presi in considerazione perché il movimento è stato più forte: eccetto che in Italia dove invece si sono accese delle dispute. Le teste sono state fatte saltare, e continuano a saltare, in molti Paesi del mondo: dagli Usa al Canada, dal Regno Unito alla Svezia, la Francia, la Germania, fino al Pakistan, e a Singapore, mentre l’Italia è stato uno dei pochi in cui non sono stati fatti i nomi e dove ognuno è rimasto al suo posto: come se qui il milione e mezzo di donne che subiscono molestie sul lavoro fosse aggredito da un esercito di fantasmi.
Qui i giornali italiani hanno tentato di raccontare in maniera anche goffa quanto stava accadendo nel mondo, e l’hashtag #quellavoltache, lanciato da Giulia Blasi, ha avuto un certo seguito ma a differenza di #metoo non è rimbalzato sul main streaming, non ha avuto copertine dedicate, non ha avuto lo stesso sostegno dei media americani e non ha provocato tutte le denunce e i licenziamenti come nel resto del mondo. Eppure i dati Istat parlano chiaro. Per l’Istat sono 8 milioni 816mila (43,6%) le donne che fra i 14 e i 65 anni hanno subito qualche forma di molestia sessuale e di queste
1 milione 173 mila hanno subìto ricatti sessuali sul lavoro Ma solo lo 0,7% ha denunciato
per paura di perdere il lavoro, e la vergogna di essere giudicate o non credute. In Italia, dopo il caso Weinstein, l’attenzione dei giornali si è focalizzata sui tempi distanti tra la violenza subìta e la denuncia che sull’abuso, e sul confine tra il corteggiamento e la molestia quando la legge definisce molestie “i comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Eppure per i giornali italiani è come se le molestie sessuali sul luogo di lavoro non esistessero: o se ne parla poco e male, o non se ne parla affatto.
Nonostante questi numeri e l’ampiezza del fenomeno, se in Italia non c’è mai stato un “caso Weinstein” è stato non solo perché chi subisce molestie sul luogo di lavoro preferisce non parlare ma anche perché la percezione è che se sul posto di lavoro i vertici sono occupati da uomini, la dimostrazione di un potere tutto maschile è implicito nel ruolo. Un comportamento normale che non fa notizia, nel senso che non vale la pena neanche indagare (a parte alcune eccezioni). Lo tsunami qui non è arrivato, e questo malgrado in Italia sia presente un forte movimento delle donne e della società civile che da tempo lavora e porta avanti temi di genere che vanno dalla violenza alle molestie sul lavoro, fino alla parità salariale e alla rappresentanza politica, perché tutto quello che succede in questo ambito l’informazione non lo racconta, non è interessante, non fa notizia, e le inchieste che vengono fatte non guadagnano certo la copertina di un giornale a grande tiratura né l’apertura di un TG. Qui, riguardo #metoo, abbiamo letto titoli come “Prima la danno poi frignano e fingono di pentirsi”, un articolo firmato su “Libero” da Renato Farina che ha scritto che in pratica se una donna non denuncia il suo stupratore subito significa che mente e che fare sesso con un uomo potete in cambio di avanzamenti di carriera è prostituzione e non stupro.
Emblematici però in questi giorni sono i titoli su due personaggi coinvolti nel #metoo: il comico, attore e performer Louis CK, accusato di molestie e tornato sul palco dopo neanche un anno dalle accuse da lui stesso riconosciute; e Asia Argento che essendo stata una delle prime a denunciare Weinstein per violenza sessuale e avendo aderito pubblicamente al movimento #metoo, viene accusata adesso di molestie nei confronti dell’attore Jimmy Bennet.
Ebbene su questi due personaggi leggiamo sui giornali italiani:
“Il ritorno del re – Come in tutti i casi portati a galla dal movimento MeToo, quello di Louis CK è stato decisamente doloroso: l’arte oratoria insita nel lavoro del comedians aveva dopo tanti anni ritrovato una bandiera degna del suo passato, ed accettare che dietro un uomo tanto acuto e brillante come lui ci fosse un predatore sessuale era decisamente un colpo troppo amaro. A sorpresa però, due giorni fa Louis CK è tornato nuovamente sul palco durante uno spettacolo al “Comedy Cellar” di New York con la stessa naturalezza che lo ha da sempre contraddistinto. Dopo 15 minuti di monologo, privo di qualunque menzione alla vicenda molestie, CK ha abbandonato il palco sotto una pioggia di applausi, un chiaro segno che nonostante la vicenda l’amore per il comico è ancora vivo”.
Oppure “Louis C.K. e l’inutile sciocchezza di chi vuole cancellare i geni per scarsa moralità – Negli Usa si discute seriamente di cancellare la memoria dei grandi artisti che si sono macchiati di molestie. Un paradosso che innanzitutto annulla la libertà sessuale sotto una cappa di puritanesimo”. Insomma eroi colpiti da un momento nefasto che hanno il coraggio di tornare alla ribalta riprendendosi il proprio pubblico.
Mentre su Asia Argento, riguardo una vicenda ancora tutta da indagare dalle autorità di Los Angeles e in cui la sua avvocata ha fatto sapere non solo di respingere le accuse di molestie nei confronti dell’allora 17enne Bennet (che a sua volta è stato denunciato per stalking nel 2015 dalla sua ex fidanzata con cui avrebbe avuto rapporti sessuali quando lei era minorenne mettendola sotto pressione), ma di essere stata lei stessa ad essere aggredita dal giovane che in realtà, come riporta la sua avvocata, l’avrebbe ricattata, il processo sui giornali è presto fatto:
“La lettera con cui il movimento #metoo scarica Asia Argento – Alla fine Asia Argento è passata dall’altra parte della barricata” oppure “Asia fuori da Cnn, il comico che torna: così si inverte la rotta del #MeToo – fino a che punto l’immagine di #MeToo è stata rovinata dal caso di Asia Argento, una fondatrice del movimento passata dal ruolo di vittima (di Weinstein) a quello di carnefice (sesso con un attore minorenne)? Oppure “Asia Argento, dopo Bennet nuove accuse contro la paladina di #MeToo: Mandava video osé”.
Un tentativo di screditare il movimento #metoo attraverso una storia tutta da verificare
su cui, sebbene l’inchiesta sia uscita sul NYT, solo in Italia è stato messo sullo stesso piano una vicenda a due ancora tutta da chiarire e quella di un predatore sessuale, uno degli uomini più potenti di Hollywood, accusato ormai da centinaia di donne. Solo qui è stato fatto un processo mediatico sommario decretando così Asia Argento come una bugiarda che prima appunto “fa la vittima” e poi si scopre essere “la carnefice” senza sapere che una donna può avere anche un passato terribile ma subire e quindi denunciare una violenza maschile, e che non bisogna essere Santa Maria Goretti per essere creduta. Eppure ogni opportunità di farla passare come una inaffidabile bugiarda, è dietro la porta.