Non percepire la violenza nella sua giusta dimensione, è appoggiare la violenza e la cultura dello stupro di cui si nutre. A che serve firmare l’appello “Mai più complici”, come ha fatto Roberto Saviano contro il femminicidio, se poi davanti a fatti concreti si spazza via tutto, ci si dimentica, e si diventa difensori di contenuti che incitano a quello stesso femminicidio, contro cui ci si era schierati con un linguaggio due volte dannoso perché rivolto a giovani e adolescenti?
“Giro in casa con in mano questo uncino ti ci strappo le ovaie e che cazzo me le cucino!”.
“Non conservatevi, datela a tutti anche ai cani, se non me la dai io te la strappo come Pacciani”.
Queste alcune delle battute di Fabri Fibra, quello che doveva cantare sul palco del primo maggio a San Giovanni e su cui la rete dei centri antiviolenza DiRe ha chiesto pubblicamente il ritiro: una richiesta accolta dai sindacati che si sono accorti della gaffe che stavano per fare.Una mancanza su cui non piangeremo ma sulla quale alcuni si sono lanciati gridando alla censura: addirittura nomi illustri come Jovanotti, Elio, Scanzi, ma soprattutto Roberto Saviano, che si sono schierati in difesa di Fabri Fibra parlando anche di “scelte bigotte”. E allora chiedo a questi uomini di riflettere sul perché la violenza sulle donne viene sempre dopo tutto il resto. Dopo la censura (vuoi impedirmi la libertà di espressione?), dopo la famiglia (che non si tocca), dopo il pareggio di bilancio (i soldi per le vittime di violenza sono sempre gli ultimi), dopo 20 anni in cui hai dovuto crescere i figli sotto il ricatto di un marito che ti ha massacrato e solo dopo che i figli sono grandi allora lo denunci, dopo il salvataggio di quelli che ti hanno stuprata a 15 anni e che non sono mai stati condannati davvero, dopo che ti hanno uccisa e si sono accorti che eri perseguitata, minacciata, tormentata, braccata. Sempre dopo.
Mi preme chiarire a questi difensori della libertà di espressione, che chi difende la tutela della vita delle donne, sa bene che la violenza non è solo fisica, sessuale, psicologica, economica, e che esiste una cosa che si chiama “la violenza del linguaggio”, che crea danni enormi perché veicolo culturale di quella discriminazione che porta alla violenza contro le donne – femminicidio. Quello che hanno chiesto i centri antiviolenza, che conoscono bene di cosa si sta parlando, è una richiesta di civiltà che nulla ha a che fare con il moralismo.
La censura è quella che impedisce di dire la verità e non quella che ferma la violenza, altrimenti non abbiamo capito niente
Quello di Fibra è un linguaggio violento e sessista, e dire che siamo bigotte è come dire che lo stupro è una forma d’amore con un rapporto sessuale un po’ acceso, è come dire che in fondo le donne se la cercano, è giustificare il femminicidio dove un uomo picchia, massacra, e arriva anche a uccidere non perché è un assassino violento ma perché semplicemente geloso.
Il MEI e il mensile di Repubblica “XL” hanno addirittura lanciato un appello a difesa di Fibra, e tutto ciò somiglia sempre di più a quello svarione capitato anche a chi ha difeso Sallusti che come direttore di un giornale aveva pubblicato un articolo di Renato Farina (su cui non mi dilungo) veicolando non solo notizie false ma usando il caso di una minore che aveva interrotto la gravidanza, per sostenere la sua crociata antiabortista accusando di omicidio la madre, il ginecologo e il giudice (che come è noto ha fatto ricorso), con una lesione del diritto all’autodeterminazione e alla privacy della minore. La violenza del linguaggio è ovunque: nei testi delle canzoni, nei libri di scuola, sui giornali, nei tg, nelle fiction, e quello che si chiede non è una moralizzazione ma il diritto sacrosanto a non subire questa violenza una, due, tre, quattro volte, sempre e ovunque siano veicolati stereotipi e discriminazione in base al genere:
perché quello è il terreno sui cui la violenza prolifera
Giorni fa il padre di Stefania Noce, uccisa nel 2011 in casa sua dall’ex fidanzato, che ora è stato condannato all’ergastolo, ha dichiarato che su sua figlia molti giornali hanno fatto ricostruzioni false e fantasiose, e che parlare di “delitto passionale” o di “femminicidio” fa una bella differenza. Le parole sono importanti e il linguaggio può travisare la realtà in maniera dannosa e fuorviante, perché possono condonare non solo gli abuser ma anche le istituzioni e i mezzi d’informazione che non riconoscono la gravità della violenza e il fattore di rischio per la vita stessa delle donne, alimentando così quella stessa cultura discriminatoria. Come dice Ninni Noce: “Se un organismo come l’Onu dice che la violenza di genere è una lesione dei diritti umani, c’è poco altro da aggiungere”.