Rimane difficile capire un Paese che discute di femminicidio da 10 anni, che festeggia la Convezione di Istanbul dicendo che è una cosa magnifica anche se non viene applicata nei tribunali, dove le istituzioni continuano a proclamare che bisogna combattere la violenza sulla donne in tutti i modi, mentre le donne continuano a essere uccise, stuprate, picchiate, e poi anche rivittimizzate da chi dovrebbe proteggerle o sostenerle.
Non basta festeggiare, la Convenzione di Istanbul va applicata
Viene il dubbio che malgrado le parole, non ci sia una reale volontà. Ieri la presidente del senato, Elisabetta Casellati, ha detto che “I numeri di questa mattanza domestica ci restituiscono l’immagine di una società impotente di liberare le donne dal loro inferno privato”, mentre la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio, ha ripetuto quello che la società civile dice da più di 10 anni, ovvero che serve un “un cambiamento culturale”. Le domande allora sorgono spontanee: perché non attuate politiche serie e realistiche?
Perché è la società a dover cambiare se chi ha gli strumenti per cambiarla, ovvero le istituzioni e i suoi rappresentanti, non attuano una realistica politica di contrasto alla violenza di genere, compreso lo sradicamento della cultura dello stupro, con adeguati finanziamenti?
Perché inneggiare alla Convenzione di Istanbul e non obbligare i giudici ad applicarla nei tribunali in maniera costante? Perché non procedere a una formazione necessaria per chi si occupa di questo fenomeno, a partire dai magistrati? In Spagna lo hanno fatto con una legge realmente applicata e la violenza sulle donne è scesa in pochi anni del 70%, qui cosa manca? Forse la reale volontà? Certo è che delle chiacchiere ci saremmo anche un po’ stufati.
I femminicidi continuano
In queste ore Paola Piras lotta tra la vita e la morte dopo che il suo ex ha ucciso il figlio Mirko di 20 anni, intervenuto per proteggerla, e ferito gravemente lei a Tortolì, in Sardegna: un uomo che era già stato arrestato per maltrattamenti e aveva il divieto di avvicinamento alla donna. La scorsa settimana sono state uccise tre donne: Emma Pezemo è stata fatta a pezzi dal fidanzato a Bologna, Ylenia Lombardo è stata picchiata e data alle fiamme in casa nel Napoletano, e Angela Dargenio è stata uccisa dall’ex marito con otto colpi di pistola a bruciapelo mentre rientrava a casa con le borse della spesa a Torino. Femminicidi raccontati per lo più sui giornali come omicidi causati da liti, ricatti e malattia mentale con narrazioni in cui manca la parola essenziale: violenza maschile.
Un modo abbastanza palese di silenziare il femminicidio per fare passi indietro rispetto a conquiste culturali fatte dalla società civile (e non dalle istituzioni) in questi ultimi anni. Non solo, perché due giorni fa Repubblica ha anche riportato le parole di Massimo Bianco, il 50enne che ha ucciso l’ex moglie aspettandola davanti alla porta di casa sua, empatizzando con l’assassino e senza rispettare né la dignità della morta né il dolore dei figli che si sono visti portare via l’affetto di una madre.
Il racconto tossico di Repubblica sul femminicidio di Torino
Repubblica scrive che il signor Bianco, guardia giurata, non accettava la separazione ed era geloso, come se questo potesse costituire un movente valido, ed empatizza riportando le parole di un uomo affranto che “prima di andare in carcere pensa ai colleghi: Avvocato, li abbracci per me”.
Un ritratto di un uomo “perso” e “geloso” che aveva dato tutti i soldi della sua eredità alla ex moglie, un assassino che “Davanti alla pm Francesca Traverso, si era messo a piangere, disperato”
Repubblica riporta le parole di Bianco che dice: “È stata una separazione tormentata, io non ero d’accordo, ci sono rimasto male”, come se fosse una attenuante e suscitando in chi legge anche una certa compassione: poverino, c’è rimasto male perché lei lo aveva lasciato e addirittura vedeva un altro uomo. Un racconto che rilancia l’immagine rivittimizzante della donna che alla fine è la vera responsabile della sua morte a causa dei suoi comportamenti verso l’uomo (come sempre). D’altronde il titolo del pezzo di Federica Cravero dice tutto: “Femminicidio Torino, la confessione shock dell’assassino: L’ho uccisa perché si vedeva con un uomo“: un’attenuante offerta su una piatto d’argento all’opinione pubblica, dato che qui i processi si fanno fuori dai tribunali.
La verità però è che l’insospettabile Massimo Bianco, dopo la separazione, aveva preso l’appartamento sopra la ex moglie perché voleva controllarla, perché non accettava di perderne il possesso e perché quella donna era di sua proprietà. Mentre Angela Dargenio in realtà si era separata perché voleva vivere la sua vita, una vita che era sua e di nessun altro, e che l’uomo non aveva nessun diritto né di controllare né di distruggere, come ha invece fatto volontariamente e con premeditazione: dato che l’ha aspettata alla porta di casa con la pistola carica in mano.
Il femminicidio è l’apice della violenza di genere
Una volontà e una scelta, quello del signor Bianco, che rientra nella sfera della violenza di genere al di là di cosa dicano i vicini o i figli, perché è lo stesso femminicidio commesso a dirci che quell’uomo è un violento e questo anche se nessuno osa nominare quella parola fatidica usata solo quando un uomo ti riempie di botte. E questo pur sapendo bene che spesso è proprio l’uomo che controlla, stalkerizza, rivendica una proprietà, a uccidere la donna che sfugge e si ribella.
un “insospettabile” che passa come tale solo in una società in cui la violenza maschile è occultata, non riconosciuta, addirittura avallata e sostenuta. Come succede qua
Ma la società, la cultura, non si cambia come per magia, e certi stereotipi sono duri a morire e a volte ritornano anche, come dimostrano le narrazioni fatte dai giornali sui recenti casi di femminicidio o di stupro, soprattutto da inizio pandemia. Narrazioni che ritroviamo non solo su alcuni giornali, anche importanti, ma anche in certe sentenze, negli interrogatori in certi tribunali, in quei luoghi che dovrebbero proteggere le donne che denunciano, mentre invece vengono esposte e rivittimizzate, trattate come bugiarde incallite che vogliono fregare l’uomo mettendolo nei guai o per il gusto di sottrargli i figli.
Come si cambia tutto questo? Non festeggiando la Convezione di Istanbul, ma obbligando alla sua applicazione nei luoghi deputati e facendone una seria implementazione adatta al nostro Paese, e questo non è compito della società civile o della gente che si vede al bar, ma delle Istituzioni e dei suoi rappresentati che sono anche pagati perché è il loro lavoro. Ma per farlo bisogna scegliere di farlo: una concretezza che in Italia ancora non c’è.