Ho denunciato il padre e ora sono la mamma orco che aliena il figlio

Il tribunale dei minori ha accusato la donna di alienazione parentale e deciso il prelievo coatto del bambino

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
DonnexDiritti Network International Women Director



Sono una donna, una madre che si attacca disperatamente alla vita e scrivo questa lettera inviandola a lei, come se fosse un ultimo messaggio di speranza in una bottiglia buttata nell’Oceano. Scampata più volte alla morte per strangolamento, ho denunciato il mio ex compagno nel 2013 per sottrarre me e mio figlio alle violenze, scappando dalla casa degli orrori. Rinviato a giudizio per maltrattamenti in famiglia, l’uomo che doveva amarci e proteggerci,

mi ha maledetta giurando che me l’avrebbe fatta pagare visto che mi ero ribellata al suo controllo

un uomo che non ha mai cercato un rapporto con il bambino fin da quando era piccolo e che dopo essere sparito per vario tempo, si è rivolto al Tribunale dei minori accusandomi di avergli sottratto il figlio. Pur avendo parlato e chiesto aiuto ai Servizi sociali, allertati più volte sulle cause della mia fuga da casa, quegli stessi Servizi hanno ritenuto idoneo il padre prendendosi in carico il bambino, un calvario in cui sono passata da vittima di violenza a colpevole di alienazione parentale: una madre malevola, ostacolante nel rapporto tra padre e figlio.

Un bambino che aveva paura del padre e non per colpa mia: nel 2015 gli ha rotto il naso e nel 2016 ha rotto a me il ginocchio rendendomi invalida al 55%

Un bambino cresciuto in maniera eccellente con giudizi postivi delle maestre e del pediatra, che però per la neuropsichiatra infantile, nella consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) richiesta dal tribunale dei minore, in futuro avrebbe forse potuto accusare dei disturbi per il fatto di non avere avuto un rapporto col padre, e questo senza alcuna valutazione delle violenze subite sia da me che dal piccolo. Eppure è stato proprio durante alcuni incontri protetti col padre che mio figlio ha collassato, ammalandosi: cosa che si è ritorta contro di me accusata di ingigantire lo stato fisico di mio figlio dopo gli incontri col padre e di fare certificati falsi.

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Tanto che i Servizi, a un certo punto, ci hanno informato che il bambino doveva essere trasferito in una casa famiglia perché solo così erano in grado di fargli accettare la presenza del padre: una decisione drastica che non solo lo toglie alla sua casa e ai suoi affetti, ma che non tengono conto affatto del vissuto traumatico del bambino nei confronti del padre. Servizi che hanno dipinto me come una bugiarda, una mamma orco, insensibile e non collaborante, e il mio ex come un uomo equilibrato e idoneo, senza mai prendere in considerazione le denunce fatte nei suoi confronti.

bambini1.jpgUna decisione su cui hanno imposto a me, che sono la mamma alienante, di convincere il bambino ad accettare questa situazione per poterlo rinchiudere in casa famiglia senza troppi clamori e resistenze. In una situazione al limite dell’incredibile e senza avere altra via d’uscita, ho cercato di rendere meno traumatico l’inevitabile a mio figlio e sono andata in struttura con lui per cercare di fargli accettare la situazione e la prima volta lui non è voluto neanche scendere dalla macchina. Da lì sono iniziati tentativi massacranti, disumani:

ho visto mio figlio buttarsi a terra, barricarsi in auto inginocchiato ai piedi del sedile del passeggero, urlare “Basta! basta!” come un disperato

Grosseto_matrimoniogay_registrato.jpge questo senza poter fare nulla per lui. Il personale della struttura mi chiedeva di farlo scendere, perché dovevo aiutare il piccolo ad ambientarsi in comunità dato che era l’unico modo per avvicinarlo al padre e io dovevo collaborare se non volevo peggiorare la mia situazione. Un bambino che ha smesso di mangiare e che quello che mangia lo vomita, perché ormai ha paura di tutto. Allora, nella disperazione più assoluta, siamo andati io, mio padre e mia madre, per cercare di farlo entrare in struttura mentre il personale guardava senza muovere un dito, tanto che a un certo punto mio padre si è rivolto a una psicologa chiedendo: “ma è necessaria tutta questa violenza?”.

La risposta è semplice da immaginare perché il provvedimento è esecutivo e la giudice una settimana fa ha comunicato che non c’è più tempo, e che il bambino non finirà la scuola ma sarà rinchiuso in casa famiglia entro 7 giorni: “Si faccia aiutare da qualcuno – mi ha detto la giudice – da parenti, amiche”, mamme di altri bambini che lo possono prendere e portare in pizzeria o al parco per portarlo vicino alla struttura dove ci sarà il personale addetto che potrà portarlo dentro.

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Oppure potete andare via di casa, lasciarlo con una baby-sitter o un’amica così potranno andare a prenderlo. Se voglio posso farmi aiutare anche da una psicologa perché per la giudice la cosa importante è “che entri, dato che, secondo lei, il bambino non subirà traumi, e “il dolore passerà”. Una giudice che ha ribadito che senza una sentenza non possono essere prese in considerazione le violenze del padre, anche perché “la violenza assistita non la può più ricordare dopo 4 anni e neppure quella subita, se mai ne avete subita”, ha detto guardando me e il mio avvocato. Una giudice che mi ha detto esplicitamente:

“Lei signora detiene il primato mondiale per aver condizionato il figlio, le diamo la palma d’oro”

A niente è valsa la proposta di una struttura semi-residenziale, nemmeno quando l’ho implorata, e ha chiuso dicendo che l’unica cosa per me sarebbe scappare all’estero, cosa che naturalmente non posso fare e che forse a loro renderebbe più facile il compito per sottrarre mio figlio. Oggi mio figlio sarà portato via dalla sua casa e dai suoi affetti per essere rinchiuso in una casa famiglia. Paura, silenzio, terrore.

 

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