Caro Moccia, se un uomo uccide la partner la responsabilità non è pari

Divampano le polemiche contro le parole scritte dallo scrittore sul femminicidio e pubblicate dal Corriere della Sera

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Magari se ne pentirà e chiederà scusa ma quello che oggi Federico Moccia, scrittore e regista degli amori adolescenziali, ha scritto in “Femminicidio, la cultura dell’amore e del rispetto contro la violenza” sulle pagine del Corriere della sera, che ha la responsabilità di averlo pubblicato in prima pagina, è gravissimo. Dopo un panegirico sul femminicidio e la constatazione di quanto sia brutta la violenza, Moccia cita, probabilmente senza averla mai neanche aperta, la Convenzione di Istanbul dicendo che “norme, leggi, misure di prevenzione devono sempre camminare di pari passo con la cultura dell’amore”, confondendo già due piani che si escludono: quello della violenza e quello dell’amore, e citando leggi che puniscono reati che nulla hanno a che fare con l’amore anche nel momento in cui la violenza si sviluppa all’interno di relazioni intime.

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Federico Moccia scrittore, sceneggiatore e regista

Affermazioni che in un primo momento potrebbero sembrare frutto di confusione, ma non è così perché le idee sul femminicidio Moccia ce l’ha chiare: “Se un uomo di una certa età decide di uccidere la moglie o la compagna di una vita, perché magari è deluso dal fatto che certe dinamiche di coppia siano cambiate, perché il suo progetto di vita si è interrotto e con esso la complicità che c’era, o perché magari non si è trovato prima il modo e il coraggio di dire che un sentimento era finito da anni” e

“il suo gesto tradisce il valore del tempo e l’obbligo etico che abbiamo tutti di viverlo al meglio e con sincerità, ma la loro colpevolezza è pari”, scrive Moccia

Bene, non so se lo scrittore, o chi ha deciso di pubblicare una cosa del genere, si è reso conto del valore di queste parole, ma qui il significato è chiaro: se un uomo uccide la sua compagna perché il rapporto è fallito, ha le sue ragioni, e la responsabilità di quella morte non è solo sua, non è di chi prende un coltello e lo ficca nell’addome della moglie, non è di chi la massacra di botte fino a farla schiattare, non è di lui che la soffoca, la strozza, la brucia, le spara, no, la responsabilità è anche di lei che non ha capito il fallimento, che ha contribuito alla delusione, che non ha saputo rilanciare il rapporto, e quindi, anche se lei muore, “la loro colpevolezza è pari”. Come se uccidere non fosse un reato, come se ammazzare una partner fosse in realtà giustificato dalla delusione amorosa, dalla non accettazione della separazione, come se uccidere fosse una normale reazione alla fine di un rapporto: un’eventualità che se fosse vera avrebbe avuto l’effetto di estinguere il genere umano.

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Un quadro, quello messo nero su bianco da Moccia, che è peggio del delitto d’onore (abolito in Italia negli anni Ottanta) in cui almeno era chiara la radice patriarcale, sostituita qui dal pietismo e dall’empatia verso chi uccide perché tradito nei sentimenti più puri. Un’aberrazione che, intendiamoci, non è solo sua né è nuova ma che appartiene alla peggiore narrazione del femminicidio presente anche nell’informazione quando sui giornali trovi scritto che lui l’ha uccisa “perché non accettava la separazione”, perché “era troppo geloso”, “perché non gli faceva vedere i figli”, perché “era stato rifiutato e allontanato”, e non semplicemente perché era un uomo violento, un maltrattante, un abusante.

Moccia probabilmente non lo sa ma dicendo che lei, la donna, quella che viene massacrata e uccisa, ha una responsabilità della sua stessa morte perché “la colpa è pari”, mette in atto una rivittimizzazione gravissima nei confronti di tutte le donne

Ma non finisce qui, perché lo scrittore di “Tre metri sopra il cielo” va oltre e scrive: “Non hanno saputo vedere le loro mancanze, domandarsi che cosa non è andato, perché quel rapporto è fallito. Ma se è fallito è fallito da tutte e due le parti”, usando il plurale perché la responsabilità è di tutti e due. E poi continua: “Servirebbe la capacità di accettare un errore, di chiedersi se si ha la voglia di continuare, di saper abbandonare la rabbia, di saper perdonare e soprattutto di dimenticare. Ma tutto questo non viene insegnato.

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La persona si sente fallita, si sente sola, tradita, allora se la prende con la persona amata e cerca di ferirla ancora di più: se la prende con i figli, con l’amore più grande, che poi dovrebbe essere anche il suo”. Ho capito bene? A causa del fallimento amoroso un uomo sarebbe giustificato a prendersela non solo con la moglie ma anche con i figli? Cioè avrebbe le sue ragioni a usare violenza e magari anche uccidere i suoi cari perché deluso da un rapporto?

Federico Moccia, si rende davvero conto di quello che ha scritto? Eppure la responsabilità non è solo sua, perché certe affermazioni le avrebbe potute fare nel salotto di casa sua

femminicidio_violenzaQuel danno chiamato vittimizzazione secondaria esplicitamente vietata dalla Convenzione di Istanbul e qui messo in atto dalla pubblicazione di questo articolo in prima pagina su un giornale nazionale letto da milioni di persone. Chi ha deciso di pubblicare una cosa del genere ha, questa volta sì, una responsabilità pari se non superiore a quello dell’articolista. Perché pubblicare un articolo del genre scritto da una persona che non è assolutamente preparata sull’argomento? Pensiamo ancora che il femminicidio sia un tema di conversazione su cui chiunque possa sproloquiare? Siamo ancora al punto che essendo un fenomeno che riguarda le donne chiunque possa alzare la penna e scrivere o prendere in mano un microfono e sparare sentenze in tv?

Forse le esperte di gender violence, le avvocate dei centri antiviolenza, le operatrici e le psicologhe, chiedono di scrivere sui film di Moccia o sul cinema in generale? Prendendo in prestito Martin Luther King, l’autore dice infine che “Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni”, ebbene a me invece viene da dire che quello che mi fa più paura è la cattiveria dei falsi buoni, la cattiveria gratuita senza uno scopo travestita da buona fede, il male assoluto. Quello che Hanna Arent chiama “la banalità del male”: faccio così perché lo fanno tutti, perché questo mi è stato chiesto, senza pensare e senza riflettere su quello che sto facendo. Ecco, pensando al male che queste parole fanno su milioni di donne, forse sarebbe stato più apprezzato il silenzio.

 

 

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