Lydia Cacho torturata per la sua inchiesta sul traffico di bambine

Ricerca che ha portato la giornalista alla pubblicazione di Los Demonios del Eden dove racconta il traffico sessuale

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



«Metti che dico a Lesly Portamene una di 4 anni, e lei mi dice: Se la sono già sc*pata, io lo vedo se l’hanno già sc*pata vedo se è il caso di metterglielo dentro o no. Tu lo sai che è il mio vizio, no? È una stron*ata ma non so resistere, e lo so che è un reato e che è proibito però è talmente facile, una bambina piccola non ha difese, la convinci in un amen e la prendi». Lydia Cacho ha cominciato da qui, dalle immagini di una confessione strappata da una telecamera nascosta a Jean Succar Kuri,

imprenditore pedofilo coinvolto nel trafficking di bambine e adolescenti all’interno di una rete internazionale e coperto da importanti esponenti politici e uomini d’affari probabilmente implicati nel traffico

Un’inchiesta che ha portato la giornalista messicana prima alla pubblicazione di Los Demonios del Eden (2005), dove racconta il traffico delle bambine, gli stupri, il mercato del sesso all’interno di una rete con «molteplici connessioni internazionali», frutto di una vasta e capillare raccolta di documentazione e di materiale pedopornografico, con video e foto, in cui la scrittrice non ha paura di fare nomi e cognomi dei responsabili; e poi a Memorie di un’infamia (2011) dove racconta anche la sua storia, il suo incubo personale. Accusata di diffamazione e calunnia, a causa del primo libro, dagli stessi responsabili del trafficking, Lydia Cacho non sapeva di aver messo il dito su una piaga che coinvolgeva non solo l’imprenditore Succar ma

un intero entourage politico fatto di clientelismi che l’avrebbe portata quasi a morire per mano della polizia giudiziaria corrotta

Lydia Cacho

Arrestata, sequestrata, torturata, portata in un carcere fuori la sua giurisdizione, Lydia è viva per miracolo, e dopo essere stata coinvolta in processi senza fine, riceve ancora oggi minacce di morte. Ed è per questo che è importante parlare di lei, perché oltre al suo coraggio è viva anche «grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica e all’appoggio di colleghi e colleghe del mondo del giornalismo e, più in generale, di quello dei mezzi di comunicazione», come spiega lei stessa, perché se il suo caso non fosse diventato pubblico e se il suo arresto non fosse balzato ai mass media al momento del suo prelievo coatto, il suo corpo sarebbe stato probabilmente ritrovato in mare senza vita. Un esempio di giornalismo militante che acquista i suo potere «quando dà voce a chi è stato costretto a tacere dalla forza schiacciante della violenza», uno dei motivi per cui Lydia Cacho, insieme a Roberto Saviano, ha ricevuto pochi giorni fa l’Olof Palme Prize 2012, il premio svedese destinato a chi lotta per la libertà, per la «instancabile, altruista e spesso solitaria battaglia per i loro ideali e per i diritti umani».

 

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