Violenza di genere: corretta informazione come prevenzione

Inchiesta sulla situazione italiana presentata alla Conferenza del Consiglio d'Europa, Mae e Presidenza della camera

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



In “Transforming a Rape Culture”, Patricia Donat e John D’Emilio definiscono la cultura dello stupro come “un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne”, una cultura che “condona come normale il terrorismo fisico ed emotivo contro donne” e in cui “sia gli uomini che le donne assumono la violenza come un fatto della vita inevitabile”.

Per contrastare la violenza contro le donne come fenomeno strutturale è necessario un cambiamento di mentalità

una trasformazione culturale che porti all’adeguata consapevolezza che stereotipi e ruoli imposti sono così radicati nel modo di vivere da risultare spesso invisibili. Modelli che pongono uomini e donne su piani di superiorità e subalternità esclusivamente in base al sesso e senza altra motivazione, condizionando pesantemente le relazioni umane. Gabbie invisibili, sia per le donne che per gli uomini, e humus culturale su cui prolifera una discriminazione di genere che è già una forma di violenza in quanto considera la donna come un oggetto da conquistare, possedere, controllare, ed eventualmente sopprimere.

L’aspetto internazionale

Luisa Betti Dakli

Dal punto di vista internazionale, dati Onu ci dicono che nel mondo 7 donne su 10 subiscono una forma di violenza nel corso della vita, e che 600 milioni di donne vivono in nazioni che non lo considerano un reato. Un fenomeno planetario su cui Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa hanno recentemente delineato contenuti e forme di contrasto, sia con le “conclusioni condivise” per l’eliminazione e la prevenzione di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze, nel marzo 2013 (UN Women – 57a Commission on the Status of Women, 4/15 marzo 2013, New York), sia con la “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, presentata a Istanbul nel 2011 e ora in vigore negli Stati che l’hanno ratificata, compresa l’Italia. Documenti che insistono chiaramente sul pensante ruolo degli stereotipi. Nelle conclusioni della 57a CSW si legge che

La violenza di genere è una forma di discriminazione correlata agli stereotipi che nega il godimento da parte di donne e bambine dei diritti umani e delle libertà

mentre nella Convenzione di Istanbul si legge che “il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne”. Sulla stretta relazione tra femmicidio e stereotipi, durante il simposio viennese della “Academic Councilon United Nations System” (ACUNS) del novembre 2012, esperte tra cui Diana EH Russell, Michelle Bachelet, Rashida Manjoo, hanno redatto un documento in cui viene chiarita la radice di genere delle varie forme di violenza contro le donne fino all’uccisione. “Il femmicidio – si legge – è l’ultima forma di violenza contro le donne e le ragazze”, e le cause “sono radicate nelle relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, e nella discriminazione sistemica basata sul genere”.

Sul femminicidio è stata la Special Rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo, a rompere il tabù presentando a Ginevra nel giugno 2013 il primo “Rapporto tematico sul femminicidio”, dove ha chiarito che la matrice della discriminazione delle donne non ha confini e oltrepassa paesi, società e religioni diverse tra loro nel mondo, e che “il riconoscimento dei diritti fondamentali da parte delle donne, resta un’importante strumento strategico e politico per fronteggiare questa violazione dei diritti umani”.

Femminicidio che, ricordiamo, è il termine sociologico coniato da Marcela Lagarde, come “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”. Un significato ben più complesso e ampio di quanto ancora oggi mass media e opinione pubblica gli attribuisca.

La violenza maschile contro le donne è una violazione storicamente basata sulla discriminazione tra i sessi

ed è oggi rilevata non solo dai movimenti femministi ma da un ampio panorama come fenomeno trasversale a culture e società diverse tra loro, ed esteso a ogni classe sociale e a ogni età. Eppure è ancora un fenomeno pervasivo tanto che per affrontare il cambiamento culturale necessario, è prioritario avere chiaro il problema, la sua complessità, il fatto che è strutturale e non emergenziale, e che si manifesta attraverso stereotipi evidenti in tutti gli ambiti della convivenza umana: nel sociale, nel privato, nel politico, nel pubblico, ovunque.

La Convenzione di Istanbul e l’Italia

In particolare in Italia il pregiudizio verso l’inferiorità femminile è così radicato che un occhio attento non si rende conto di quanto la discriminazione di genere sia una costante nella vita di una donna: una discriminazione che è già di per sé una forma di violenza. Imparare a memoria libri di testo in cui il proprio genere è cancellato, percepirsi come inadeguata per nascita, essere discriminate da parte dei propri genitori di fronte a fratelli maschi, sottostare alle avance indesiderate come se fossero normali, considerarsi oggetto da conquistare e possedere, è il più profondo esproprio della soggettività che un essere vivente possa subire. Ed è una violenza.

La Convezione di Istanbul, oltre a condannare “ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica”, riconosce “la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere” e insiste sulla prevenzione e sulla protezione, prima che sulla punizione, suggerendo una fitta e articolata rete di sostegno per donne e i bambini che le accompagnano, ma soprattutto chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale, nel senso che si possono fare le migliori leggi del mondo ma se non cambia la testa, le leggi possono anche rimanere inapplicate o essere distorte.

Convenzione che stabilisce esattamente cosa s’intenda per violenza contro le donne: “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”, (…) “compresa la violenza domestica, che colpisce le donne in modo sproporzionato” e che comprende “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia”.

Concetti che nel nostro Paese non sono ancora entrati nel tessuto sociale che spesso relega la violenza sulle donne alla violenza sessuale, e di recente alla violenza fisica

Per applicare quindi la Convenzione di Istanbul, perché sia efficace, è necessaria una chiara percezione della violenza che non la sottovaluti fino a considerarne il rischio di vita della donna e dei minori, un cambiamento profondo che non può avvenire senza interventi mirati e competenti, seri investimenti di denaro e di forze, e senza un approccio interdisciplinare che metta sul tavolo tutti gli elementi che ruotano intorno a questa sfera d’interesse.

Ma avere una chiara percezione della violenza sulle donne, significa da una parte partire da dati precisi e da un serio monitoraggio sull’efficienza attuale delle istituzioni nel contrastarla, e dall’altra occorre intervenire massicciamente sulla narrazione stessa della violenza assicurandosi che sia fatta fuori dagli stereotipi, in quanto una narrazione distorta rappresenta una delle spinte principali alla sottovalutazione del femminicidio.

Sul ruolo dei media

Alcune indicazioni della Convezione di Istanbul erano già state indicate dalle ultime Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw nel 2011 (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) – che sorveglia l’applicazione della “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne” ratificata dal nostro Paese nell’85 con adesione al Protocollo opzionale nel 2002 – e dalle Raccomandazioni della Special Rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo, nel 2013. Tra queste vi è la parte che riguarda il ruolo dei media e dell’informazione. Nelle Raccomandazioni Cedaw viene raccomandato all’Italia di “predisporre in collaborazione con un’ampia gamma di attori, comprese le organizzazioni femminili e le altre organizzazioni della società civile, delle campagne di sensibilizzazione attraverso i media (…), affinché la violenza nei confronti delle donne venga considerata socialmente inaccettabile”.

Consiglio d’Europa

Nelle raccomandazioni Onu di Manjoo, si raccomanda di “formare e sensibilizzare i media sui diritti delle donne compresa la violenza contro le donne per ottenere una rappresentazione non stereotipata delle donne e degli uomini nei mezzi di comunicazione nazionali”. Nella Convenzione di Istanbul si chiede, all’art.17, che “Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità”.

Passi in cui sottolineerei la formazione sui diritti delle donne per gli operatori della comunicazione affinché si eviti una rappresentazione stereotipata di uomini e donne, e la partecipazione all’elaborazione e all’attuazione di politiche, oltre che all’elaborazione di linee guida, come indica la Convenzione di Istanbul. È opportuno riflettere su come tali indicazioni siano implementabili nel nostro Paese in relazione all’informazione che ha bisogno, per sua natura e carattere, di un approccio diverso rispetto ai media e alla comunicazione in generale in quanto informazioni date da giornali, telegiornali, speciali e programmi tramite stampa, tv e web – a differenza di fiction o pubblicità – si pongono nei confronti dell’opinione pubblica come oggettive, quasi super partes, influenzando in maniera diretta la percezione di un problema e di quello che accade.

La narrazione della violenza contro le donne

Fino a qualche anno fa i giornali italiani, malgrado i dati Istat (2006) riportassero che l’80% della violenza era violenza domestica e malgrado la maggior parte degli autori fossero membri maschi della famiglia italiana (mariti, fidanzati, ex o partner respinti), davano grande risalto allo stupro o al femmicidio da parte di un immigrato, mentre relegavano in secondo piano uccisioni di donne dopo una lunga serie di violenze domestiche e di denunce, ricalcando il solito background stereotipato nell’illustrazione dei fatti e chiamando in causa raptus, infermità mentale, gelosia, delitto passionale, problemi economici, quasi fossero attenuanti, e descrivendo la vittima come se avesse cercato il pericolo. Citando il “Rapporto Ombra” presentato dalla “Piattaforma Cedaw” a New York nel 2011 dalle Ong italiane:

I media spesso presentano gli autori di femminicidio come vittime di raptus e follia ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femminicidi vengano commessi da persone con disagi

psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, meno del 10% di femminicidi è commesso a causa di patologie psichiatriche e meno del 10% è stato commesso per problemi economici. Grazie alla mobilitazione delle donne della società civile italiana, che ha spinto tantissimo per la ratifica della Convenzione di Istanbul, nel 2011 si è cominciato a pronunciare anche qui la parola “femminicidio”, nel tentativo di trattare questi argomenti in maniera meno stereotipata. Si è cominciato a dare una prospettiva diversa alla narrazione della violenza di genere nell’informazione, al fine di argomentare il fenomeno con una prospettiva che superasse il pregiudizio discriminatorio e alcuni cliché sia sulle donne, trattate come prede o come tentatrici “che se la sono cercata”, sia rispetto a un argomento considerato inferiore e privo di una sua dimensione specifica all’interno delle redazioni, cercando di non raccontare la solita storiella isolata e sganciata dal resto, colma di particolari morbosi in cronaca nera.

E questo grazie a una rete di scambio interdisciplinare che ha visto collaborare giudici, avvocate, centri antiviolenza, giornaliste, psicologhe, operatrici, in un proficuo scambio di saperi e una più corretta informazione. Ma la sottovalutazione non è l’unica causa di rivittimizzazione mediatica, perché anche una iperinformazione, se fatta in maniera improvvisata, può essere pericolosa. In Italia in pochi mesi il termine femminicidio è stato ridotto dai giornali a uxoricidio perché impropriamente abusato da chi non ne conosceva il significato e che pur non avendo strumenti, si avventurava. A un certo punto il femminicidio era diventato il passepartout su cui anche chi non aveva competenze, poteva aspirare a fare il suo scoop. Un pericolo perché lentamente il livello scende e ci si ritrova non solo a non mettere in discussione gli stereotipi ma si sostiene una cultura che stigmatizza, attraverso un’informazione scorretta, da una parte gli uomini-mostro e dall’altra donne senza spina dorsale che non si sanno difendere.

Mae – Ministero degli Esteri

I messaggi che sono stati veicolati dalla fine del 2013 in poi in Italia, sono stati per lo più su un piano di superficialità che ha coinciso con il ristabilimento di quegli stessi stereotipi che sono alla base della violenza contro le donne.

Molti programmi tv sono stati confezionati da giornalisti che si sono improvvisati e che hanno contribuito ad abbassare il livello di confronto

mentre sulla stampa nazionale ci sono stati casi in cui giornalisti e opinionisti prestigiosi ma completamente a digiuno su questi temi, hanno sentito il bisogno di disquisire su situazioni e di spiegare cause di fatti senza strumenti né formazione, ingenerando confusione e portando indietro il lavoro fatto da altri. Errori commessi in base ad un altro stereotipo, ovvero che mentre di politica, di economia, di sport, di cronaca, di cultura, si occupa il giornalista competente, ma per quanto riguarda le questioni di genere e la violenza sulle donne, chiunque può prendere parola e dire la sua, come fosse un tema libero.

In realtà tutto ciò che riguarda discriminazione e violenza sulle donne, così come le questioni di genere, sono in Italia ancora considerati argomenti di serie B, dentro e fuori l’informazione, e da qui la convinzione che non serva preparazione perché non c’è un vero sapere su una condizione che dura da millenni con ruoli ben definiti e socialmente operanti, ci potrà essere indignazione ma non scienza. Una superficialità che su ampia scala ha creato un’onda mediatica enorme che, essendo instabile e priva di basi solide, si è inevitabilmente spenta creando stanchezza e disinteresse, e portando al “quasi” silenzio, anzi a un vero e proprio ritorno al passato, con il ripristino integrale di quegli stereotipi di cui abbiamo parlato, malgrado il femminicidio sia ancora presente nel nostro Paese.

Oggi l’onda della sovraesposizione mediatica sulla violenza contro le donne, che in Italia ha ancora un’altissima percentuale di sommerso, si è esaurita e il risultato è che la parola femminicidio è stata non chiarita ma relegata, e si è tornati a trattate la violenza sulle donne come un fatto di cronaca nera isolato e sporadico, attraverso una narrazione morbosa che per rendere più appetibile il racconto va nuovamente a scavare nel torbido, indugiando su aspetti da fiction, facendo ancora una volta leva su stereotipi culturali, con il risultato di minimizzare la gravità del reato, cancellare la vittima, insistere su improbabili profili psicologici dell’offender e sulla follia di un momento (era un bravo ragazzo, era un padre premuroso, ecc), spingendo così sia alla sottovalutazione della percezione della violenza – in fondo è una cosa che può succedere – e quindi rivittimizzando le donne che la vivono e anche quelle che sono state uccise.

Il giornalismo italiano, a parte alcune eccezioni, ha ripreso con grande disinvoltura a descrivere i casi di femmicidio – femminicidio come se fossero un romanzo d’appendice o una fiction, casi che vengono presentati in maniera morbosa e accattivante, storielle su cui avventurarsi con inutili descrizioni come: “Sette coltellate a gola e corpo. Dopo aver fatto l’amore. Dopo averle sussurrato parole dolci”, con ingredienti a base di sesso, violenza, sangue e morte. Ne sono un esempio l’informazione data sui femminicidi avvenuti in Italia tra luglio, agosto e settembre per i quali si è tornati a parlare di motivazioni passionali e raptus di follia, abbandonando parole come femminicidio, violenza domestica, controllo e possesso sulla donna, e tracciando macabri scenari da film horror nella ricostruzione dei fatti.

mentre si insiste sulle attenuanti dell’offender descritti con “era un padre modello” o “un ragazzo d’oro”, la donna uccisa, presa a coltellate, buttata giù dal balcone, sparisce

e si legge giusto il nome e il cognome in poche righe. È stato così per Alessandra Agostinelli, una donna di 34 anni uccisa a coltellate dall’ex marito, Emiliano Frocione, nel frosinate; per Oksana Martseniuk, 38 anni, accoltellata e poi decapitata il 24 agosto a Roma da Federico Leonelli, 35 anni; per Alessandra Pelizzi, 19 anni, uccisa dall’ex fidanzato Pietro Maxymilian Di Paola, 20 anni, che a Milano ha buttato la ragazza giù dal 7° piano per poi buttarsi anche lui perché non poteva sopportare di essere stato lasciato da lei.

La rivittimizzazione mediatica

Un triste scenario, quello della narrazione del femminicidio, che dimostra come la grande tentazione del comodo stereotipo comune, prenda inevitabilmente il sopravvento se le misure per attuare un vero cambiamento culturale non sono adeguate, serie e profonde. Nell’Italia che ha ratificato la Convenzione di Istanbul si è tornati a dare notizia di un femminicidio, che magari arriva dopo una lunga serie di maltrattamenti in famiglia, con un titolo che apre sull’attenuante psichiatrica dell’autore con i solti raptus, infermità mentale, gelosia, delitto passionale, stress dovuto alla perdita del lavoro, o con un profilo della vittima che possa giustificare l’atto di un poveretto respinto dalla donna che ama o da un uomo normale che a un certo punto perde la testa.

Un’informazione che in questo modo torna a sostenere un sistema che giustifica indirettamente il reato come se fosse nella norma, un reato di minor gravità, sostenendo così quella cultura di cui la violenza si nutre. E la rivittimizzazione, in questo caso attraverso i media, diventa realtà. Un caso esemplare e di respiro internazionale, è quello di Pistorius che è apparso per mesi su tutti i giornali del mondo mentre piangeva disperato e vomitava in aula perché scosso dalla morte della fidanzata da lui stesso uccisa.

Celebrato come l’eroe sconvolto per l’accaduto, suo malgrado, Pistorius è stato condannato per omicidio colposo, e non volontario, della fidanzata Reeva Steenkamp, grazie a una sentenza in cui la giudice Thokozile Masipa ha confermato che l’offender ha sparato attraverso la porta del bagno uccidendo la donna perché pensava che si trattasse di un ladro. Giudice che non ha accettato la tesi del raptus, preferendo la negligenza – cioè lo ha fatto consapevolmente ma non voleva – senza tener conto delle testimonianze dei vicini, che avevano sentito urlare la donna prima degli spari, e che di fronte a una relazione conflittuale e forse una propensione troppo spiccata dell’uomo per le armi, ha detto che le relazioni sono “dinamiche”, decidendo che quello sarebbe stato “un giudizio” sulla questione e stracciando così pagine intere scritte su femmicidio e femminicidio. Trattare le donne come se fossero perenni inadeguate che se la cercano, farle sparire anche dalla notizia della propria morte perché vittime di un femminicidio, significa ucciderle due volte. Mettere sullo stesso piano la violenza maschile con la reazione femminile di fronte a una violenza fisica e/o psicologica,

dare voce all’autore della violenza senza dotarsi di strumenti adeguati, tracciare profili dell’offender senza indagare, può essere rivittimizzante

Un atteggiamento che ha tenuto ben lontani i giornalisti da molti centri antiviolenza, i quali, per molto tempo, si sono rifiutati di dare in pasto le storie delle donne come se fosse materiale da scoop: un gap, tra la realtà della violenza e l’informazione, che ha creato danni enormi sulla percezione del problema. Soprattutto in un contesto culturale ancora così discriminatorio per le donne, dove l’idea che continua a passare è che comunque un certo tipo di atteggiamenti, anche violenti, siano un ingrediente scontato dei rapporti intimi: una convinzione che nei tribunali, nelle caserme, e in alcune perizie psicologiche (CTU), espone la donna a grave rischio, in quanto la violenza psicologica nei rapporti d’intimità, non è una semplice conflittualità della relazione ma violenza vera e propria, come indica la stessa Convenzione di Istanbul.

Conclusioni

Esercitare violenza attraverso il linguaggio non significa quindi solo insultare, offendere, ferire ma esercitare una violenza invisibile sui processi d’identità della persona che in questo caso si estende al genere e che forzano la realtà. Titolare l’articolo di cronaca di un femmicidio con “dramma della gelosia”, oppure “uomo uccide per gelosia”, o ancora “uccisa per motivi passionali”, significa deviare la percezione del fatto dando un’informazione sbagliata perché il femmicidio è una conseguenza estrema della violenza di genere e rappresenta la volontà – e non la follia – di un totale controllo sulla donna che se non è “mia” non può essere di nessun altro.

Per questo le linee guida, indicate dalla Convenzione di Istanbul, hanno bisogno della competenza di chi si occupa di violenza sulle donne ma sa anche come si fa un giornale e come funziona una redazione, linee che dovrebbero comunque essere accompagnate da politiche mirate a una formazione qualificata degli operatori della comunicazione senza la quale è impossibile cambiare l’informazione e quindi anche la cultura.

Il pregiudizio della discriminazione di genere e la sottovalutazione che ne consegue, è così ampia da esigere un sistema di contrasto a 360 gradi, come indica la Convenzione di Istanbul, e con un approccio interdisciplinare dove le parti in causa lavorino in tandem sulle proprie specificità ma con scambio proficuo di saperi e di idee. E questo non solo per giudici, psicologi, avvocati, operatori e forze dell’ordine, ma anche per i media, e soprattutto per quell’informazione che vuol essere oggettiva nel suo ampio raggio d’azione. Un problema che si risolve solo mettendo le persone competenti al posto giusto:

perché se il problema è strutturale e culturale, l’informazione corretta di questa violenza, diventa uno dei fattori propulsivi per il cambiamento

Per dare una corretta informazione, che non sia soltanto attraverso i seppur utilissimi e validissimi blog e rubriche, è necessario entrare a pieno titolo nel tessuto vivo del giornale, avviando un processo di trasformazione dentro le redazioni che vorremmo fossero attrezzate, non solo con linee di condotta, ma con redattrici e redattori formati su questi temi che possano produrre una nuova cultura, un nuovo modo di vedere le cose.

Una specie di occhio di genere che nei vari desk possa rintracciare e stimolare un nuovo linguaggio e un modo non stereotipato di raccontare la realtà. Come esiste il giornalista di esteri, interni, cultura, sarebbe auspicabile che della violenza sulle donne e sui minori non si occupasse né il cronista né il redattore di turno, ma qualcuno che sa maneggiare l’argomento. Lo mettereste uno che fa sport a fare la pagina di economia? Credo di no.

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Inchiesta presentata alla CONFERENZA “AL SICURO DALLA PAURA, AL SICURO DALLA VIOLENZA” del Consiglio d’Europa, Ministero degli Esteri e Presidenza della camera – © Tutti i diritti riservati 

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