Quale futuro per le donne afghane?

Nel documento di Chicago l’Alleanza ribadisce l’impegno a lasciare l’Afghanistan ma le donne sono ancora a rischio

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



La guerra che in Afghanistan ha provocato dal 2001 a oggi 12.000 morti civili e 3000 militari, dovrebbe essere finita. Durante il summit della Nato che si è svolto a Chicago il 20 e il 21 maggio, la exit strategy dall’Afghanistan delle forze armate straniere è stata decisa per la fine del 2014: l’ISAF (International Security Assistance) con i suoi

130.000 soldati della Nato, dovrebbe lasciare la sicurezza del Paese in mano all’esercito afghano

l’ANSF (Afghan National Security Forces), ritirandosi dal Paese gradualmente ma non completamente. Un mese fa, durante la Conferenza del World Affairs Council 2012, Illary Clinton, sottosegretaria di Stato americana, aveva già chiarito che pur confermando l’uscita dall’Afghanistan, Washington avrebbe comunque assicurato la sua presenza sul territorio, tanto che le tre basi aree Usa in aree di interesse strategico come Bagram – vicino a Kabul – Shindand – presso il confine con l’Iran – e Kandahar, restano operative. Nel documento uscito da Chicago, si ribadisce che «Europa e Nato condividono valori comuni e interessi strategici congiunti» e che «l’Unione Europea è partner unico ed essenziale», e malgrado la Francia di Hollande voglia anticipare il ritiro delle proprie truppe, gli Usa vogliono che la Nato sia in Afghanistan oltre il 2014, tant’è che gli americani hanno negoziato con Karzai la loro presenza almeno fino al 2024 con una missione di formazione e di sostegno.

In realtà la ritirata totale non ci sarà e quello che si prospetta è un minore investimento militare e quindi di denaro. «La guerra è un business – dice Luca Lo Presti, presidente della onlus Pangea che da anni lavora in Afghanistan con donne e bambini – e come tale ha degli investitori che se non hanno un loro tornaconto economico rivedono i loro investimenti.

Come in Iraq, anche in Afghanistan, ci sono interessi economici e strategici, ma la guerra costa»

Nel frattempo l’Afghanistan è diventato più pericoloso di prima: «Lo Stato afghano – continua Lo Presti – sta in piedi perché ci sono gli stranieri ma in realtà non c’è più niente e in questa situazione può succedere di tutto, anche una guerra civile. Il fatto che l’opinione pubblica sia convinta che con la guerra si porti la pace è illusorio perché la guerra non può essere portatrice di pace e i militari hanno un solo scopo: fare il loro lavoro e cercare di tornare a casa tutti interi. Se bombardi non porti la pace. E dire che l’occupazione esporta i diritti umani è ancora più illusorio perché non è così che si fa. Dire, come faceva la moglie del presidente Bush, che gli americani andavano per togliere il burqa alle donne, non significa nulla perché sotto quei burqa ci sono donne coraggiose che si nascondono sotto quella veste perché hanno paura di una situazione ormai molto pericolosa.

In Afghanistan chi stupra è la polizia corrotta e non c’è una cognizione del diritto: in questo status le donne non esistono»

Per quanto riguarda le afghane la situazione è molto diversa sul territorio: a Kabul, dove la frequenza scolastica delle ragazze è buona, in certi quartieri le donne usano un foulard come velo, mentre nei villaggi e in provincia le donne non hanno voce in capitolo e qui stupri, matrimoni forzati, analfabetismo, spose bambine, violenza domestica, impossibilità di accesso alla tutela della salute, sono la norma. Secondo l’ultimo report di Human Right Wach, l’87% delle afghane ha subito violenza – per metà violenza sessuale – e il 60% dei matrimoni è forzato – il 57% è con ragazze sotto i 16 anni – mentre il suicidio è uno dei modi per sfuggire alla violenza maschile.

«La situazione è peggiorata negli ultimi dieci anni di guerra e di occupazione Nato – ha detto mesi fa Samia Walid del Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). Solo l’anno scorso sono stati 5000 i casi di violenza registrati al Ministero per le pari opportunità e la Commissione per i diritti delle donne, e molti altri non sono pervenuti. Molte donne hanno paura di denunciare i torti subiti perché sanno che il potere giudiziario è corrotto e che il tribunale non darà loro ragione o risarcimento. Negli ultimi 5 anni sono aumentati i casi di stupri sulle ragazze ed esiste una legge per cui un marito può violentare la moglie senza nessun problema legale». L’Afghan Women Network – rete di associazioni afghane impegnate nelle tutela dei diritti delle donne – dice che le istanze della società civile devono far parte del dialogo di pace e le donne devono essere messe in prima linea nella transizione post-Chicago. Le Nazioni Unite hanno chiesto direttamente alla Nato e al governo di Karzai di proteggere i diritti di milioni di donne afghane che «non possono essere compromessi da un qualunque accordo di transizione tra la Nato, altri partner internazionali e il governo afgano, o da qualsiasi negoziato di pace», e per questo gli investimenti finanziari dovranno «essere legati all’obbligo di adempiere agli impegni del governo afghano in tema di diritti umani e in accordo con la costituzione e i trattati».

Una preoccupazione fondata se si considera l’8 marzo di quest’anno, il governo Karzai ha regalato alle afghane «il codice di comportamento» emanato dal Consiglio degli Ulema, principale organismo religioso del Paese per cui le donne non possono viaggiare senza essere accompagnate da un uomo, non possono parlare con sconosciuti in luoghi pubblici come scuole, mercati e uffici, e a casa il marito può picchiarle «in conformità con la sharia». «Attualmente – dice Simona Lanzoni, direttrice dei progetti Pangea – le donne afghane non si sentono tutelate e protette dall’ANSF, l’esercito militare afghano, che è assolutamente insensibile e impreparato alle questioni di genere, al riconoscere le donne nei loro diritti e nei reali bisogni. Ed è quindi di vitale importanza che nel periodo di formazione e addestramento delle forze dell’ordine afghane, vengano coinvolte le donne e che esse stesse entrino a far parte del corpo di polizia.

È il momento di dare applicazione in Afghanistan alla risoluzione 1325 dell’Onu per coinvolgere le donne nel processo di pace»

La risoluzione 1325, «Pace, donne e sicurezza», è un testo delle Nazioni Unite sul ruolo delle donne prima, durante e dopo i conflitti, e chiede agli Stati di adottare una prospettiva di genere con una risposta ai bisogni specifici delle donne – prime e più gravi vittime dei conflitti – appoggiando le iniziative di pace delle donne locali e provvedendo a una partecipazione diretta di quest’ultime nelle trattative di pace e nella ricostruzione del paese. «In Afghanistan – spiega Lanzoni – le donne non hanno gli strumenti legali per portare avanti le loro richieste e il sistema legislativo fa acqua mentre il sistema tradizionale è forte.

Le donne hanno paura di uscire, quindi o c’è solidarietà, o sei da sola e paghi con la vita. In un Paese in cui alle donne non è permesso di uscire di casa da sole neanche se c’è il terremoto, il rischio è che le afghane paghino questa transizione e per evitare questa disgrazia ulteriore è necessario coinvolgerle nei meccanismi del processo di pace». Il presidente Obama ha assicurato che «mentre gli afghani si rialzano, non si troveranno soli», ma quello che si teme è che i soldi che verranno investiti in Afghanistan in futuro, circa 4,3 miliardi di dollari all’anno per tre anni (di cui loro garantiranno 2,3 miliardi, l’Italia 120 milioni di euro annuali, Gran Bretagna 110 milioni di dollari e la Germania 150), saranno destinati a finanziare soltanto le operazioni militari con grossi tagli agli aiuti civili. Se finora il 70% dei fondi è andato alla riorganizzazione dell’esercito e della polizia, alle strutture civili come ospedali, scuole, strade, che cosa andrà? La risposta potrà arrivare a Tokyo l’8 luglio quando si riuniranno i Paesi donatori per l’Afghanistan. Il rischio, in vista di un cambio strategico, potrebbe essere che diminuiscano anche i finanziamenti da un punto di vista civile. E allora sarebbero proprio le donne le prime a rimetterci.

 

 

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